Rapporto europeo anti-tortura e carceri italiane
martedì 12 settembre 2017

Nelle carceri italiane, «l’anno scorso, si sono verificati 39 suicidi, la stessa cifra del 2015, nonostante l’incremento della popolazione carceraria». Non è uno scoop mediatico su un’amarissima verità che non si conoscesse ancora; contenuta nella risposta del nostro Governo all’ultimo Rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti, è la sintesi ufficiale di dati statisticamente ineccepibili (da 52.154, in un anno, i reclusi erano diventati 54.653). Eppure la frase – il testo è in inglese, ma la traduzione è letterale – rischia di suonare minimizzante e quasi tranquillizzante, quasi che fosse naturale, con la crescita globale di quella popolazione, aspettarsi invece un corrispondente aumento dei decessi.

Quella frase può essere un esempio di come lo scrupolo di esattezza burocratica (o, per dirla con Pascal, l’esprit de géométrie) possa capovolgere, sia pur involontariamente, la percezione di realtà che in valori assoluti restano tragiche. Non sarebbe giusto addurla per oscurare la complessiva serietà del dialogo instauratosi tra il Consiglio d’Europa e le autorità nazionali a seguito delle visite effettuate da una delegazione del Comitato, nell’aprile 2016, in diversi penitenziari e istituti psichiatrici del nostro Paese.

Quanto al Rapporto, sbaglierebbe chi vi volesse scorgere l’avallo a certe descrizioni delle nostre prigioni come se costituissero una rete di tanti lager o di tante Guantanamo: gli stessi commissari europei danno atto che «la grande maggioranza dei detenuti incontrati» durante le visite ha palesato di «essere stata trattata correttamente dal personale di polizia»; né sono taciuti gli effetti positivi degli sforzi fatti, soprattutto recentemente, per rendere più vivibile la vita delle persone private dalla libertà.

Non mancano però i rilievi – molto dettagliati e, taluni, anche pesanti – desunti da carenze strutturali (come quelle che hanno portato alla riduzione degli spazi a disposizione di ogni recluso, ancora al di sotto del tollerabile e della stessa media europea) o da denunce di violenze (quali «schiaffi, pugni, calci e manganellate» contro persone arrestate), parecchie delle quali supportate da documentazione medica. Dal canto suo la risposta dell’autorità ministeriale italiana è opportunamente volta, soprattutto, a ragguagliare sulle iniziative adottate e sui risultati conseguiti nei mesi successivi a quello della visita, compreso il varo della legge per la specifica repressione, come crimine specifico, della tortura (resta però da vedere se il testo risponda alle esigenze sottolineate in sede europea, circa la necessaria adesione agli standard internazionali, e il dubbio investe anzitutto la discutibilissima esclusione, dalla descrizione legislativa della nuova fattispecie criminosa, della punizione come tortura quando si tratti di fatti singoli che pur ne abbiano tutte le caratteristiche).

Quanto alle denunce, senza che ci si rinchiuda in una difesa incondizionata dell’operato delle forze dell’ordine, si forniscono dati sul seguito di quelle raccolte ufficialmente, anche nei seguiti giudiziari penali cui hanno dato luogo. Al di là di queste risposte, pur doverose, deve comunque suonare come un richiamo a responsabilità più diffuse e da soddisfare continuativamente l’appello che il Rapporto formula circa l’esigenza di trasmettere a tutto il personale di polizia il «chiaro messaggio, che i maltrattamenti sono inaccettabili e saranno perseguiti con sanzioni adeguate».

Mera retorica? O monito comunque superfluo? Non si direbbe: e per smentire le frettolose liquidazioni del problema non c’è neppure bisogno di richiamare il recentissimo episodio che vede coinvolti i due carabinieri fiorentini in una bruttissima storia (in ogni caso del tutto anomalo, nella indiscussa realtà di almeno alcuni degli aspetti venuti in evidenza). Soprattutto, occorre non dimenticare la pressione che, a sostegno e a sollecitazione di reali o potenziali velleità di «giustizieri della notte» nell’ambito delle forze dell’ordine, sta montando nella popolazione: che spesso trasforma la sacrosanta esigenza di pene certe e tempestive, per chi ne turba la sicurezza e la tranquillità, in perentorie richieste del 'dentro, e buttando la chiave', accompagnate da palesi o sottintesi incoraggiamenti a «non andare troppo per il sottile» nel 'trattamento' di veri o presunti delinquenti.

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