venerdì 27 aprile 2012
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​Come tutti i concetti sufficientemente generici evocati per dar nome a fenomeni che inquietano, restando tuttavia sfuggenti, anche la citatissima categoria dell’«antipolitica» rischia di essere chiamata in causa come una spiegazione ritenuta esaustiva di un disagio che è invece complesso oltre che evidentemente profondo. Ma cos’è davvero l’antipolitica, di cosa si alimenta? E come si neutralizza? Per le mani abbiamo infatti non già una speculazione politologica ma una delle ragioni che tengono insieme il nostro destino di cittadini, dentro un Paese le cui molteplici peculiarità valoriali equivalgono ad altrettante risorse per venir fuori dalle sabbie mobili: guai a scoraggiarle.Nelle pieghe di una società italiana che si sta sforzando di affrontare le asprezze di una crisi angosciosa sono in movimento e in questione gli stessi fattori costitutivi del nostro rapporto con il mondo e il futuro, e tra questi la capacità di rappresentanza dei partiti, la relazione con chi amministra la cosa pubblica, il senso di un impegno per gli altri reso con la sola preoccupazione di servire il prossimo. Di quest’ultimo slancio si nutre con tenacia la rete associativa che ha dato vita a quel fenomeno (ammirato e studiato da economisti, sociologi e politici oltrefrontiera) che va sotto la definizione di "non profit", la <+corsivo>big society<+tondo> italiana: un’animatissima piazza sociale che chiede solo la libertà di poter appunto "servire" come sa fare, esigendo allo stesso tempo che lo Stato (e chi deve farlo funzionare) faccia fino in fondo ciò che gli compete, in spirito di reciproca stima e di piena collaborazione.La società italiana – esperta in sussidiarietà, perché tenuta in piedi da quella realtà sussidiaria per natura che è la famiglia – si attende di scorgere nei partiti quantomeno un’eco della sua attitudine a offrire soluzioni ad attese concrete e spesso lancinanti. L’educazione – intimamente cristiana – a guardare ciascuno come persona meritevole di tutta l’attenzione, di uno sguardo accogliente e di un’intelligenza creativa rende esigenti rispetto a una risposta pubblica all’altezza di questa antropologia intrecciata alle fibre stesse delle nostre comunità. Ma se chi si candida a guidare il Paese non dimostra con fatti e comportamenti di saper cogliere l’attesa che sale dalla gente, se viene percepito non come colui che vuole servire ma come uno che "si serve", se parla una lingua che suona aliena rispetto a una quotidianità che per troppi si è fatta in salita, se non fa niente per stimare la famiglia stabilmente costituita, costituzionalmente definita e posta come provvidenziale presidio anti-precarietà, se non valorizza la formidabile ricchezza educativa del Paese, l’attivismo solidaristico che lo percorre come il sangue un organismo vivente, se manca a tutti questi appuntamenti con ciò che resta saldo nel cambiamento in pieno corso, allora – lui – a che serve? È vero che «nulla può sostituirsi ai partiti», come ha detto mercoledì il presidente Napolitano, ma i partiti devono far capire, e far capire ora, di conoscere e apprezzare la società che vogliono e devono servire. Persona, educazione, famiglia, solidarismo: ci vuol tanto a guardare in faccia il Paese? «C’è un capitale di solidarietà – ha detto ieri l’arcivescovo di Milano, cardinale Scola – che solo gli attori della società civile sono in grado di generare, e di cui nessuno Stato democratico può fare a meno». E poche ore dopo l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ha ricordato che «se la società è fatta di persone, e senza di loro non sarebbe nulla, essa ha il dovere di accogliere se stessa nelle singole persone che la compongono e che la fanno essere, così come le persone sono, senza selezioni di intelligenza, di censo, di salute. (...) La società nel suo insieme, e lo Stato nelle sue proprie forme, devono accettare la sfida».La crisi non mette in discussione la disponibilità di tanti italiani a dedicarsi a ciò che non è solo "mio" ma "nostro": siamo tutti educati a sapere che senza un "noi" l’"io" è in scacco. Lo sfilacciamento del legame fra cittadini e partiti, questa continua erosione della fiducia della gente nella politica e nella sua capacità di rigenerarsi, è più grave proprio perché è chiaro a tutti che non è più tempo per estenuanti scaramucce tattiche. Sul piatto c’è quella che Bagnasco definisce «l’umanità sociale di un popolo, un’umanità che non brandisce i problemi scaricando ogni soluzione sugli altri, ma porta il proprio contributo». Già, tradire ciò che siamo è la vera antipolitica. E la politica non deve più alimentarla. Questa è l’urgenza indiscutibile.
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