venerdì 30 settembre 2022
Il Mustang, in Nepal, è accessibile a un numero di viaggiatori ridotto ma non più limitato ai soli alpinisti o escursionisti estremi. I cambiamenti dovuti a clima, spopolamento e nuovi stili di vita
Il Mustang si estende per oltre 3.500 chilometri quadrati, in Nepal, al confine con la Cina

Il Mustang si estende per oltre 3.500 chilometri quadrati, in Nepal, al confine con la Cina - Ansa

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Per molti, alpinisti e trekker soprattutto, il Mustang rappresenta una meta quasi mitica e a dimostrarlo è tutta una letteratura di montagna che si è arricchita dalla conquista del primo Ottomila, l’Annapurna, da parte della spedizione francese guidata da Maurice Herzog nel 1950 e quella di un decennio successiva del Dhaulagiri, da parte di una cordata svizzero-austriaca. Spedizioni che consentirono di gettare uno sguardo oltre la profonda gola del Kali-Gandhaki, verso il Tibet, su un lembo di Himalaya che era allora perso nella leggenda e nella sua inaccessibilità. Il Mustang è, però, anche centrale a una letteratura di viaggio dovuta alla penna di esploratori e orientalisti, primo tra gli italiani Giuseppe Tucci, il fondatore dell’Istituto per il Medio e l’Estremo Oriente (Is.Meo), che lo attraversò per buona parte durante un suo lungo itinerario nel Nepal occidentale nel 1952 descrivendolo nel suo 'Tra giungle e pagode' pubblicato l’anno successivo.

Nonostante il controllo imposto dal Nepal nel XVIII secolo, solo nel 2008 con la fine del regime monarchico nepalese anche l’ultimo sovrano del Mustang, Jigme Dorje Palbar Bista, ha perso il suo titolo, ma gli eredi della dinastia cercano di promuovere una “modernizzazione sostenibile” e di preservare una identità che negli ultimi decenni si è confrontata con importanti fattori di cambiamento. A partire dalla graduale apertura della strada tra l’Alto Mustang e le aree pedemontane centrate su Pokhara, la seconda città del Nepal, base per le spedizioni verso il massiccio dell’Annapurna e luogo di transito per i pellegrini indù e buddhisti diretti verso Muktinath a 3.800 metri d’altezza, la meta di pellegrinaggio più elevata e anche per questo più ambita dell’intero subcontinente indiano. Esteso per 3.573 chilometri quadrati, storicamente area di passaggio e sosta delle carovaniere, di pellegrinaggio e di scambio culturale, isolato nella parte superiore durante il periodo invernale e con pochi servizi essenziali, il Mustang è oggi accessibile a un numero di viaggiatori ridotto ma non più limitato ai soli alpinisti o escursionisti estremi attraverso una via sterrata sottoposta a frane e piene improvvise, affacciata su un canyon con un dislivello di 4.000 metri tra Annapurna e dal Dhaulagiri, dove scorre tumultuoso e imprevedibile il Kali- Gandhaki.

Nella sua parte superiore, dove le foreste e le praterie lasciano il posto al deserto di alta quota, la collisione del Subcontinente indiano con l’altopiano tibetano ha creato un caos geologico, un territorio tormentato di montagne brulle dai colori continuamente cangianti alternate a profonde vallate al fondo di strapiombi in diverse aree punteggiati di grotte rifugio per eremiti, briganti e la popolazione quando minacciata. Un mondo ancestrale dominato da cime innevate spesso senza nome dove la popolazione è concentrata in villaggi circondati da oasi di orti protetti da muretti di pietra alternati a distese rosa durante la fioritura del grano saraceno e gialle in quella dell’orzo. Aree limitate di presenza umana, anticipate sull’orizzonte dalle massicce strutture, oggi spesso in rovina, di fortificazioni e dimore dei tanti piccoli sovrani che storicamente si sono contesi terre e controllo del commercio del sale, della lana e dell’orzo, ma anche dal rosso di stupa ( chorten in tibetano), templi e monasteri della tradizione buddhista che qui resta fedele alla guida spirituale del Dalai Lama. Molti tengono nei negozi o in casa suoi ritratti, ma va svanendo (con il sollievo delle autorità che hanno sempre cercato di evitare il confronto con Pechino) la memoria della presenza delle migliaia di guerriglieri, in parte profughi della diaspora in parte tibetani Kham, che per 15 anni dalle basi nel Mustang contrastarono con il supporto statunitense e indiano il controllo cinese del Tibet, cedendo le armi nel 1974 davanti alla richiesta del Dalai Lama di passare alla resistenza nonviolenta. L’accettazione fu sofferta e per molti traumatica, ma pochi resistettero al disarmo avviato dall’esercito nepalese e all’invio in campi o oltreconfine.

I cambiamenti in tempi recenti sono stati tanti e irreversibili, tuttavia non hanno intaccato una identità in cui centrale è il buddhismo lamaista. La minaccia più grande, però, arriva dallo spopolamento e dall’infiltrazione di stili di vita, necessità e possibilità che i giovani sono i primi ad accogliere. Così i monasteri in buona parte si spopolano, tanti templi sono custoditi a rotazione dai monaci rimasti o spesso cadono in abbandono, chiusi per preservare testi, dipinti e oggetti cerimoniali forniti da una tradizione del restauro e dell’artigianato religioso che oggi si affida anche alla maestria di esperti provenienti dalla diaspora tibetana, dall’India e anche dall’Occidente. La lodevole opera di restauro degli affreschi, statue e strutture dei monasteri della piccola capitale dell’ex regno del Mustang, Lo Manthang, che appare come fuori dal tempo, incastonata a 3.800 metri sull’altipiano, molto deve anche all’impegno e all’ingegno dell’italiano Luigi Fieni e dei tecnici e volontari locali da lui preparati. anche il contatto con la popolazione tibetana a rendere prezioso il viaggio in Mustang. Una presenza umana di 1314mila individui che, dovendosi confrontare con una natura dominante, seÈ vera e sovente punitiva, condivide strumenti e tempo nell’impegno quotidiano, ma trova spazio per accoglienza e socialità. I problemi di quello che è stato definito “ultimo Tibet” sono quelli dell’intero Nepal, accentuati però dall’evoluzione delle condizioni ambientali, dalla limitatezza della popolazione e dalla posizione strategica. Precipitazioni in calo con conseguente maggiore aridità dei suoli nella regione superiore, dissesto idrogeologico per le piogge torrenziali e le piene improvvise nella parte inferiore hanno accelerato lo spopolamento e la ricerca di modalità di vita meno dipendenti dai cicli stagionali e dal legame con il territorio. Così le migrazioni annuali sempre più portano molti verso valle senza una volontà di ritorno.

Da qui il crescente timore per il futuro del Mustang, per la sua originalità e integrità, accentuato dalla possibilità che quella che è oggi forse l’area etnica tibetana più autentica possa essere sacrificata alle prospettive di sviluppo del Nepal e agli interessi commerciali dalla Repubblica popolare cinese. Le postazioni di comunicazione e controllo cinesi sulle cime al confine con la Regione autonoma tibetana sono un chiaro segnale di interesse verso quest’area e non solo per la sua rilevanza strategica. Pechino preme da tempo sul governo nepalese perché dia il via libera alla strada camionabile che dal confine oggi quasi sigillato, scavalcando il passo di Kore-la e attraversando tutto il Mustang, scenderebbe fino a Pokhara e da lì verso l’India. Le infrastrutture viarie, logistiche e doganali in territorio cinese sono già complete, mentre in quello nepalese sono solo abbozzate, salvo un tracciato stradale ancora precario, ma se il piano si realizzasse la devastazione ambientale e culturale per quello che era un tempo un “Tibet ignoto” sarebbe profonda e irreversibile.

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