domenica 17 luglio 2011
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In questi giorni torna alla ribalta l’emergenza fame nel Corno d’Africa. Un fenomeno aberrante, ingiustificabile, che rappresenta purtroppo una "costante" in quella vastissima e remota regione. Oltre alla siccità, vi è una lunga serie di fattori geopolitici, a partire dall’assenza di uno Stato di diritto in Somalia, per non parlare della mancanza di corridoi umanitari in una zona ad altissima conflittualità. A ciò si aggiungano le interferenze dalla vicina sponda yemenita di soggetti che perseguono interessi stranieri. Inoltre, la scarsità o addirittura l’assenza dei servizi primari in molti Paesi della regione – dalla sanità all’acqua alle comunicazioni – acuisce la sofferenza delle popolazioni. Sta di fatto che l’allarme lanciato dalle organizzazioni umanitarie non può essere inteso all’insegna dell’attimo fuggente, quasi fosse un modo per placare le coscienze. Tanto più che l’emergenza non è legata allo stato di perenne prostrazione della gente, quanto alla ciclica insufficienza di denaro delle grandi organizzazioni internazionali che dovrebbero finanziare le operazioni di soccorso sul campo. Quali responsabilità ricadono sul sistema mediatico rispetto al diffondersi delle ingiustizie su scala planetaria? Se da parte di chi fa informazione vi fosse la consapevolezza di quello che sta accadendo, ogni giornalista diligente sarebbe pronto a mobilitarsi per denunciare uno scandalo, quello della fame, la cui natura e le cui proporzioni rappresentano il fallimento dell’agognata cooperazione allo sviluppo. Ecco che allora la cecità civile, la sordità morale e il mutismo rispetto ai diritti negati congelano le iniziative protese al cambiamento, perché in fondo nessuno è disposto a sottoscrivere un "basta" risolutivo che implichi un coerente atteggiamento nella gestione dei beni della Terra. Bisogna battersi perché vi sia un cambiamento che miri a difendere strenuamente la dimensione dei valori il cui vertice è rappresentato dalla persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Ha ragione pertanto chi denuncia il continuo dilagare dell’"opinionismo", la consuetudine di delegare il pensiero a colui che è disposto a ragionare per conto terzi. A cosa serve suscitare l’emozione di un’opinione pubblica mondiale che sperimenta sempre più frustrazioni rispetto all’ineluttabilità delle vicende umane? La verità è che gli spiccioli elargiti dai donatori internazionali alimentano l’assistenzialismo e la dipendenza, mentre la povera gente avrebbe bisogno della rete per pescare e non soltanto del pesce in scatola per lenire i morsi della fame. Perché ostinarsi al pendolarismo degli aiuti, passando da un’emergenza all’altra, vanificando ogni serio ragionamento sullo sviluppo quando i governi delle nazioni ostentano l’arrendevolezza dei pavidi rispetto alle altrui miserie? Finché a dettare le regole non sarà la politica, soggetti come il Capital World Investors, indicato nel 2009 come il più potente controllore di titoli azionari nelle Borse globali, faranno bello e cattivo tempo. Stiamo parlando di chi detiene anche la quota maggiore, oltre il 12%, delle due maggiori agenzie di rating, Moody’s e Standard&Poor’s che tanto stanno facendo per minare la credibilità degli Stati europei, acuendo peraltro la divaricazione tra ricchi e poveri a tutte le latitudini. Non basta perciò sfamare le bocche nel Sud del mondo, occorre anche riformare, in funzione anti speculativa, un’economia globalizzata protesa alla massimizzazione dei profitti a vantaggio di uno sparuto manipolo di nababbi. Ben venga allora la proposta del presidente uscente della Bce Jean-Claude Trichet di creare un ministero delle Finanze della zona euro, per contrastare gli attacchi dell’alta finanza. Non a parole, ma con adeguate misure contro le operazioni speculative (come la Tobin Tax per regolare e tassare le transazioni finanziarie a favore della cooperazione, che invece lo stesso Trichet ha criticato) e per definire una politica condivisa che salvaguardi gli interessi di tutti. Una lezione di civiltà che l’Europa non può disattendere.
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