Una procedura di (ri)lancio
venerdì 16 luglio 2021

La procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti di Polonia e Ungheria (quest’ultima per la legge che vieta la 'promozione' tra i minori di contenuti attinenti alla condizione omosessuale, che vengono associati alla pornografia, mentre Varsavia è sotto inchiesta per una serie di iniziative di stampo illiberale) non fa che riaprire una ferita ormai trentennale di cui soffre l’Unione Europea fin dal momento in cui venne avviato il processo di allargamento. In particolare, in quel fatidico 1993, vennero enunciati e sottoscritti i Criteri di Copenaghen, griglia a maglie strette ma necessaria affinché i Paesi candidati potessero accedere a quello che all’origine era un club di sei nazioni dell’Occidente liberaldemocratico, ma che si voleva far evolvere in un abbraccio virtuoso fra vecchie e nuove democrazie.

Un processo faticoso e accidentato che passò attraverso i Trattati di Nizza e di Lisbona, sino al 1° maggio 2004 quando venne finalmente approvata l’adesione di Cipro, Malta, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Estonia, Repubblica Ceca e Slovenia, cui seguirono Bulgaria e Romania e, nel 2013, Croazia. I Criteri di Copenaghen tuttavia rimasero uno dei pilastri su cui si fonda la Ue. In quel condensato di doveri si reclamava (e si raccomanda tuttora) la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela.

Un vademecum quasi scontato per i 'soci fondatori' della Ue, pienamente assorbito dai programmi delle due principali famiglie politiche, quella popolare e quella socialista, così come dai liberali, dai verdi e dalla sinistra. Ma non tutte le famiglie politiche e non tutte le nazioni rispettano quei criteri. I cosiddetti sovranisti, soprattutto.

Nazionalisti, populisti, euroscettici, conservatori si radunano attorno a varie sigle che hanno in comune una forte difesa dell’identità nazionale e un’altrettanto netta ostilità alla crescita politica della Ue in senso federale. Tra essi svettano gli attuali governi di nazioni come, appunto, Ungheria e Polonia, e anche – più sottotraccia – degli altri due membri del fin troppo noto Gruppo di Visegrád, ovvero Slovacchia e Repubblica Ceca. Tutti quanti ex Paesisatelliti dell’Unione Sovietica, mentre nell’«impero rosso» erano direttamente assorbite le tre Repubbliche baltiche – Lituania, Lettonia, Estonia – che coi loro vicini condividono l’antica paura di un 'ritorno' della Russia e insieme una spiccata diffidenza nei confronti di meccanismi e valori comunitari.

Soprattutto di quell’ordoliberalismo, nato in Germania negli anni 30 del Novecento, che imponeva la necessità di un quadro giuridico per realizzare e tutelare un’economia (sociale) di mercato.

Due differenti immagini d’Europa si fronteggiavano dunque all’indomani dell’allargamento: quella francocarolingia dei Paesi fondatori – Italia compresa – e quella post-comunista dei nuovi arrivati dell’Est. Il confine, invisibile ma nonostante tutto netto, rimane quello della Cortina di Ferro. Ma in questo solco hanno avuto buon gioco ideologie antagoniste sbocciate un po’ dovunque, dai fiamminghi belgi del Vlaams Belang all’antico Front National francese (ora Rassemblement National) di Marine Le Pen, da Alternative für Deutschland agli austriaci dell’Fpö, dal Partito della Libertà olandese fino agli italiani (in competizione tra loro) della Lega e dei Fratelli d’Italia.

L’azione legale avviata nei confronti di Budapest e Varsavia può tradursi in una sospensione dei fondi comunitari e in una serie di sanzioni, prima fra tutte il congelamento dei 7 miliardi del Next Generation Eu destinati a Budapest. Ma i tempi saranno lunghi.

E nel frattempo entrambe le nazioni potranno mettere i bastoni fra le ruote alla macchina europea, che per certe deliberazioni procede solo all’unanimità. perfciò, alla fine, Ungheria e Polonia troveranno una compensazione. E di solito quella economica acquieta, pur senza annullarli, anche i più rugginosi conflitti ideologici. Ma quella regola dell’unanimità (e della stessa velocità per tutti) è ormai superata e bisogna decidersi a superarla anche formalmente. Perché nessuno va allontanato dalla «casa comune», ma nessuno può permettersi di non rispettarne le grandi regole liberaldemocratiche e solidali, e di paralizzarla. Siamo alle procedure dì’infrazione, ma all’Europa serve una procedura di (ri)lancio.

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