G7, qualche esito e un serio rischio
mercoledì 28 agosto 2019

Sono stati Donald Trump ed Emmanuel Macron, due figure, due personalità così diverse per cultura e temperamento ad aver dato senso e indirizzo a un vertice, come quello di Biarritz, che sembrava condannato all’irrilevanza: un club esclusivo – il G7 di oggi – composto da soci in disaccordo su quasi tutto, conclusosi con farisaica preveggenza senza un comunicato finale, ma solo una smunta lista di capitoli corredati di buone quanto generiche intenzioni.

La mancanza di unanimità sulla maggior parte dei temi trattati (crisi del Golfo, Ucraina, Iran, Brexit, guerre dei dazi, cambiamenti climatici, foreste che bruciano dall’Amazzonia alla Siberia, spese per la difesa, segnali di pace alla Russia un tempo membro di riguardo del sodalizio ma oggi osteggiato da Gran Bretagna, Germania e Canada) non deve tuttavia trarre in inganno: perché il G7 di Biarritz è stato essenzialmente una partita a due che si è giocata fra Washington e Parigi, e che a suo modo si è chiusa con un successo.

Partito come temibile castigamatti dell’Europa brandendo la minaccia di dazi e di una nota spese per i morosi della Nato, Trump ha finito per ribaltare ogni pronostico inscenando una cavalcata trionfale culminata con la mano tesa a Teheran, un inatteso do ut des che chiede più controlli sul nucleare in cambio della possibilità per l’Iran di ricollocare sul mercato 700mila barili di petrolio al giorno, il tutto propiziato dal coup de théâtre di Macron, che aveva invitato al G7 il ministro degli Esteri iraniano Zarif. Non bastasse, alle minacce di guerra totale sui dazi Trump faceva seguire le parole di encomio per Xi Jinping e un inaspettato appeasement con la Cina. Stesso atteggiamento con l’Europa, con le tasse sul digitale, con le automobili tedesche. Minacce e revoche di dazi: una sapiente altalena che è poi la vecchia tattica del bastone e la carota; ma Trump ci ha abituati ormai a un’eterna mano di poker.

Certo, siamo lontani dalla diplomazia come la intendeva Woodrow Wilson e dalle sottigliezze di Henry Kissinger (ma il ventottesimo presidente americano era anche rettore dell’università di Princeton e Kissinger un brillante accademico di Harvard), eppure la forza negoziale di Trump sta proprio nell’imprevedibilità delle sue decisioni, dalla partita nordcoreana a quella europea, dallo scontro con la Cina all’ondivaga politica con il Venezuela di Maduro. Da Trump ci si può aspettare di tutto, oggi alleato di ferro di Boris Johnson, domani chissà. Più lineare nella sua corsa alla leadership di un’Europa bisognosa di urgente restauro politico ed etico, Macron ha dominato la scena anche per mancanza di autentici concorrenti: il Giappone di Shinzo Abe e il Canada di Justin Trudeau come narcotizzati dai propri guai regionali, la Germania di Angela Merkel in crisi economica e con una leadership fortemente indebolita e l’Italia in crisi di governo di Giuseppe Conte il cui ruolo (e non era responsabilità tutta sua) è parso talmente sfumato da risultare inesistente.

Che lezione possiamo ricavare dal vertice di Biarritz? Senza dubbio la consapevolezza del fossato che si è significativamente allargato fra le due sponde dell’Atlantico e secondariamente – ma neanche troppo – il fatto che siamo molto lontani da quel Nuovo ordine mondiale che i leader occidentali vagheggiavano nel Novecento a conclusione del Secondo conflitto mondiale e che il collasso dell’Unione Sovietica aveva riesumato, dando al politologo Fukuyama il destro per proclamare la «fine della Storia». Semmai è accaduto il contrario e forse è più corretto dire che oggi il mondo viaggia in un sovrano ordine sparso, dove più che l’intesa nei vari club delle nazioni (G7, G8, G20) contano le dinamiche e le decisioni dei singoli leader. Con il rischio, ed è un rischio molto serio, che le leve del mondo finiscano per essere prerogative di un G2 economico composto da Stati Uniti e Cina, o da un G3 geopolitico formato da Usa, Cina e Russia. Ci sarebbe da rimpiangere, ed è tutto dire, la defunta Società delle Nazioni.

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