La levata di scudi dei partiti dell’opposizione e di parte dei sindacati è stata immediata. Ma la tesi avanzata dal ministro dell’Istruzione e del Merito della necessità di differenziare gli stipendi dei professori per tenere conto del diverso costo della vita, ad esempio tra Nord e Sud Italia, è tutt’altro che una bestemmia. Anzi, indica un problema su cui i sindacati per primi dovrebbero tornare a interrogarsi per meglio tutelare i lavoratori e i propri iscritti.
Certo, le parole di Giuseppe Valditara rompono un tabù, quello che deriva dal principio che alla medesima prestazione lavorativa debba corrispondere un’uguale retribuzione. Ma questa sacrosanta uguaglianza, cristallizzata nei minimi salariali previsti dai contratti nazionali, non esaurisce il ventaglio delle possibili tutele dei lavoratori. Né le differenze di trattamento tra un dipendente e l’altro di un medesimo settore, che scaturiscono dall’insieme di tutti gli strumenti contrattuali e dalla valutazione di diversi fattori, possono essere giudicate negativamente a prescindere.
Ciò avviene normalmente nel settore privato, dove gli stipendi devono sì rispettare i minimi contrattuali, ma si differenziano poi in base alla redditività della singola azienda, alla produttività di sistema e del singolo lavoratore, al suo “potere contrattuale” e a molti altri elementi compresi i fattori esterni territoriali. Secondo alcune elaborazioni dell’Istat, ad esempio, nel settore manifatturiero la differenza salariale tra Calabria e Lombardia prima della pandemia era di circa il 40% a fronte di un differenziale di produttività del lavoro del 50% e di condizioni esterne (livelli di disoccupazione, costo della vita ecc.) altrettanto differenti. Perché gli stipendi sono tutto tranne che una variabile indipendente.
La questione che si pone allora è: una maggiore differenziazione è lecita ed auspicabile anche nel settore pubblico? Sì, soprattutto se si guarda alle reali condizioni differenti in cui si svolge il lavoro di un dipendente pubblico, in questo caso quello degli insegnanti (ma potrebbe valere anche per altre figure). Non si tratta di reintrodurre gabbie salariali rigide, come quelle abolite in Italia nel 1969. Ma di tener conto che esistono differenze significative nel costo della vita tra zone geografiche e contesti urbani diversi e che queste condizionano moltissimo la possibilità di vivere e lavorare in un territorio o nell’altro. Basti un esempio per rendersene conto. L’Istat ogni anno calcola la soglia di povertà assoluta sulla base del costo di un paniere minimo di beni considerati essenziali per vivere. Prendendo come parametro una persona singola, questa cifra varia fino al 48% a seconda che viva al Nord o al Sud, in una metropoli o in un piccolo Comune al di sotto di 50mila abitanti. Il perché è intuitivo: il costo delle abitazioni e dei generi di prima necessità sono estremamente diversi tra grandi e piccoli centri, tra Settentrione e Mezzogiorno.
E proprio riguardo alla povertà assoluta, l’uguale trattamento nei requisiti di accesso e negli importi dei sussidi previsti dal Reddito di cittadinanza provocano una forte discriminazione e penalizzazione dei poveri del Nord rispetto a quelli del Sud, di quelli che abitano in grandi città in confronto a chi vive in un paesino, come rilevano alcuni studi elaborati dalla Caritas. Allo stesso modo, retribuire in maniera perfettamente uguale un’insegnante che svolge il suo lavoro a Monterosso Calabro e una che lo fa a Milano, un prof che sta a Napoli e un altro a Codigoro significa non tener in alcun conto differenze enormi in termini di costo della vita, non sempre a svantaggio del Mezzogiorno. Differenze che spesso rendono molto difficoltosa la mobilità territoriale o provocano un carosello di docenti che si trasferiscono da un luogo all’altro inseguendo non la crescita e il miglioramento professionale ma la convenienza economica dell’abitare e del vivere.
Tenere conto del costo della vita differenziando gli stipendi non significa, come si è affrettato a precisare lo stesso ministro Valditara, voler stravolgere quanto previsto dal contratto nazionale uguale per tutti. Né innescare una fuga da Sud a Nord, visto che gli eventuali emolumenti maggiori compenserebbero solo prezzi più alti. Si può, anzi si dovrebbe, invece, valorizzare la contrattazione di secondo livello su base territoriale, inserendovi anche dei premi retributivi legati al costo della vita. E magari trovare parametri trasparenti e condivisi per misurare e premiare pure il tanto (e spesso a sproposito) citato “merito” degli insegnanti, anch’esso molto influenzato dalle opportunità da una parte e difficoltà dall’altra, dei contesti esterni alla scuola. Ma questo è un altro discorso che richiederebbe spazi e argomentazioni più ampi.
La bestemmia non sta nel vedere ed esplicitare i problemi, ma nel fingere che non esistano. Almeno a parole sono tutti d’accordo nel riconoscere che gli insegnanti andrebbero pagati di più. Altrettanto fondamentale, però, è capire che bisogna retribuirli meglio.