«Un bel tacer non fu mai scritto...». Vero, ma si può cercare e dare luce
giovedì 14 marzo 2019

Caro direttore,

mi rivolgo a lei per chiedere ai giornalisti italiani di uscire dalla logica della notizia scoop, di valutare attentamente quando è giusto dare o non dare certe notizie. In particolare, mi riferisco alla notizia del figlio nato dalla relazione di un ragazzino con la sua insegnante di doposcuola e, in particolare constato che il marito di lei e padre di un altro figlio, sempre avuto con l’insegnante è a conoscenza dell’accaduto e ha perdonato la moglie e riconosciuto il bambino. Dando in pasto ai lettori o ai telespettatori questa notizia, si rovina la vita a tutti gli attori della spiacevolissima vicenda, tutti giovani, che in questo momento avrebbero solo bisogno di silenzio e di protezione. Un bel tacer non fu mai scritto...

Enrico Reverberi


Gentile direttore,

buongiorno, ho appena ascoltato la rassegna stampa di Radio3 Rai “Prima Pagina” di oggi mercoledì 13 marzo e mi domando che fine abbia fatto il giornalismo di qualità. Sono giunta a questa domanda dopo aver sentito parlare della vicenda della infermiera/insegnante che ha avuto un bambino da un adolescente cui dava ripetizioni. Mi chiedo perché vicende così intime e private, che inevitabilmente avranno ripercussioni su tante persone, arrivino alla ribalta nazionale e scusate, perché ci siano giornalisti che le divulgano con infiniti dettagli. Io sarò ingenua e mi si dirà che è la legge dell’informazione. Ma a che fine? Questi sono temi che passeranno dai giornali più autorevoli ai rotocalchi di gossip, ai talk show pomeridiani, dove cosiddetti vip dicono la loro (a pagamento)... Tutto questo a scapito di una famiglia, di un neonato, di un adolescente che ha a sua volta una famiglia. E certo si dirà che è stata mantenuta la più accurata privacy, ma allora a maggior ragione: a che pro diffondere la pruriginosa notizia? Grazie, e mi scusi lo sfogo.

Donatella Parravicini


Capisco lo sconcerto e l’esigenza a cui entrambi, gentile signora Parravicini e caro signor Reverberi, date voce. E vi confesso il mio disagio. Proprio oggi ho deciso di affidare alla speciale riflessione di una mia speciale collega, Marina Corradi, un aspetto umanissimo e altrettanto speciale di una vicenda delicata e scottante che nei giorni scorsi abbiamo trattato con tutto il rispetto e l’asciuttezza possibili, dedicandole appena due brevi notizie. L’esatto contrario degli «infiniti dettagli » su una violenza sessuale, perché questo è sempre per legge la relazione tra una persona adulta, uomo o donna che sia, e una persona minore che non abbia più di quattordici anni di età. E la legge non è frutto del caso, ma del faticoso e necessario tentativo di contrastare una pratica gravissima. Ebbene di fronte una violenza sessuale, che è parte integrante e motore primo del caso che tanto clamore ha suscitato e tanto spazio mediatico ha ottenuto per il fatto di aver portato alla generazione di un figlio, secondo lo “stile Avvenire” avevamo due alternative: offrire la cronaca più essenziale e meno pruriginosa dell’accaduto o assicurare l’approfondimento più rigoroso e illuminante. Stavolta, con i miei colleghi, ho ritenuto che quest’ultimo, l’approfondimento, fosse più rischioso che utile. L’ho pensato sino a ieri e alla “lezione di paternità” che da questa storia è emersa e che è al centro del commento che potrete, se vorrete, leggere oggi . Dunque – per usare le vostre espressioni conclusive – capisco perfettamente il senso di uno «sfogo» per il quale non c’è affatto da chiedere scusa, così come intendo bene lo spirito amaro di quell’amaro “un bel tacer non fu mai scritto”. Ma spero che riusciate pure ad apprezzare un giornalismo come il nostro, che cerca tenacemente di trovare le parole per trasmettere anche quel po’ di luce che in ogni vicenda umana, anche la più triste, può brillare. Luce che non viene da noi, ma che noi raccogliamo e che aiuta a stare lontani da compiacimenti e autocompiacimenti, perché pretende e propone onesta misura e sguardo pulito. Non siamo gli unici a cercare di stare a quest’altezza, ma noi certamente ci proviamo. Ogni giorno.

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