sabato 18 giugno 2016
​Cambiare verso alla globalizzazione
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Tantissimi di noi sono nati nel mondo naturalmente "internazionalista" della guerra fredda, quello dei due blocchi americano e sovietico, nel quale i nazionalismi sembrava essere un residuo del passato. E quando leggevamo sui libri di storia le strane vicende della prima guerra mondiale mai avremmo pensato conflitti di quel tipo sarebbero potuti tornare. Alla luce di questo, il "movente" dell’assassinio della deputata laburista inglese Jo Cox è, se confermato, del tutto assurdo. Quale attesa messianica ripongono nell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea coloro che gridano: «Britain First!»? Gli inglesi hanno la loro valuta, la loro politica monetaria e sono usciti brillantemente dalla crisi finanziaria. Che cosa potrebbe cambiare la vita di chi spera nella Brexit allora? Il fatto che sarà Londra e non Bruxelles a scegliere l’imposta sulla carta o la lunghezza delle vongole? Nel migliore dei casi nella vita degli inglesi non cambierà proprio nulla, nel peggiore la perdita di cooperazione peggiorerà i conti dell’economia.

Abbiamo più volte ragionato su queste colonne sulla causa reale e profonda del malessere degli Stati europei, Gran Bretagna inclusa, che va affrontata alla radice se vogliamo evitare che la parte più debole delle nostre società sia attratta dalla deriva nazionalista. La globalizzazione ha reso più difficile e precaria la vita dei lavoratori a bassa qualifica dei Paesi ricchi, costretti a competere con un gigantesco "esercito di riserva" di persone che fuggono miseria, fame e guerre. Ci chiede ragione delle nostre contraddizioni e ci "condanna" a risolvere le diseguaglianze e i conflitti, perché non esiste più un angolo del pianeta, per quanto benestante e "civile", non esiste muro o protezione con la quale possiamo difenderci dall’aspirazione insopprimibile degli esseri umani a una vita decente. L’odio verso gli stranieri e gli immigrati nasce dall’idea che lo straniero è colui che viene a farsi sfruttare (o lo fa nel suo Paese) per togliermi lavoro, benessere e sicurezze economiche. C’è bisogno di un colpevole facilmente identificabile per sfogare la rabbia. Ma il nazionalismo è moralmente ed economicamente un non senso. Tante volte su queste colonne ci si è impegnati ad argomentare razionalmente sul tema, ma bisogna riconoscere che un primo livello profondo della questione è filosofico-culturale.

Da una parte, c’è chi è consapevole del fatto che l’energia del vivere viene dalla sfida dell’incontro con il diverso da sé, incontro che genera solidarietà, gratuità e cooperazione da cui scaturiscono anche i doni economici della superadditività (il nostro sforzo congiunto produce, cioè, risultati superiori alla somma di quanto avremmo fatto da soli). Dall’altra parte, c’è una fonte di energia assolutamente inferiore: la droga di chi pensa che la soluzione ai problemi del proprio esistere venga dall’essere "contro" qualcuno, identificato semplicisticamente come capro espiatorio di tutti i propri problemi esistenziali. Difficile argomentare su questo piano con i fautori della seconda visione, ma la nostra responsabilità politica in questo delicato momento storico è quella di una dimostrazione intelligente dei benefici della cooperazione e, dunque, di un miglioramento delle regole Ue e di una risposta concreta a paure che non possono essere minimizzate e derubricate in blocco a "populismo". Non c’è bisogno di aspettare che la convergenza tra Paesi ricchi e Paesi poveri si concluda. Sin da oggi è possibile, anzi necessario, varare provvedimenti che trasformino la globalizzazione in una corsa verso l’alto sui diritti della persona. La soluzione è estremamente semplice. Per analogia con quanto sta accadendo nel settore della sostenibilità ambientale bisogna spiegare ai cittadini che le diseguaglianze sono come l’innalzamento del livello dei mari, l’inquinamento o l’effetto serra, ovvero sono "mali pubblici globali" le cui conseguenze ricadono su ognuno di noi. Contrastarle in modo energico è l’unica soluzione per risolvere alla radice il problema.

Per raggiungere il risultato ci vuole un’azione a quattro mani: istituzioni, mercato, cittadinanza attiva, imprese responsabili.  Con un sistema di incentivi fiscali "a saldo zero", sul modello del conto energia nel quale sui prodotti provenienti da filiere che non danno abbastanza dignità al lavoro vanno aumentate le imposte sul consumo, mentre su quelli che vengono da filiere socialmente responsabili le imposte vanno ridotte. È arrivato, in altri termini, il momento di dire che i prodotti ad alto "inquinamento sociale" vanno disincentivati fiscalmente, perché danneggiano la salute sociale ed alimentano odio e nazionalismi. Agire dal lato della tassa sui consumi avrebbe il vantaggio di non mettere in difficoltà un Paese rispetto ad un altro, ma di promuovere in tutto il mondo la dignità della persona. Non importa se il prodotto proviene dalla Cina, dalla Somalia, dal ghetto di Rignano in Puglia o da Prato. Se la dignità della persona è calpestata nella filiera produttiva il consumo del prodotto deve essere disincentivato fino ai casi più gravi in cui può essere proibito (come nelle regole sul "lavoro forzato" fissate dall’Organizzazione internazionale del lavoro). I progressi relativi all’infrastruttura informativa necessaria per misurare la responsabilità sociale delle imprese sono sempre più rapidi e la sensibilità della cittadinanza attiva che "vota col portafoglio" (cioè con le proprie scelte di acquisto) sta crescendo. È proprio arrivato il momento di un intervento "alto" della politica per cambiare il verso della globalizzazione. Una scelta due volte sensata: perché crea le condizioni dell’equità alimentando la solidarietà e disarma i nuovi, e di nuovo feroci, nazionalismi.

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