mercoledì 11 marzo 2009
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Nello stesso giorno in cui il Comu­ne di Firenze ha deciso di confe­rire la cittadinanza onoraria a Beppi­no Englaro, il signor Cesare Lia di Tri­case, in Puglia, ha ricevuto una lettera dall’Inps. La raccomandata chiedeva, col consueto stile anonimo degli uffi­ci pubblici, notizie urgenti sul reddito della figlia di Cesare, Emanuela Lia, 37 anni; altrimenti, si minacciava, le sa­rebbe stata sospesa la pensione di in­validità. Ma Emanuela Lia è dal 1993 in stato vegetativo dopo un incidente. Un’altra Eluana, solo che la sua fami­glia non chiede che possa morire, ma da sedici anni combatte perché viva. La contemporaneità dei due episodi ­la cittadinanza di Firenze sortita dal voto di una maggioranza risicata e con una spaccatura all’interno del Pd, e la distrattamente spietata lettera dell’In­ps - fa pensare. Al padre che ha com­battuto perché la figlia in stato vegeta­tivo morisse, un’onorificenza. A quel­lo che con la sua famiglia ogni giorno legge brani di libri a Emanuela, e non la lascia mai sola, l’intimazione di un ente burosaurico, viene da dire, tanto cieca e goffa appare quella raccoman­data che pretende il reddito di una donna in coma da 16 anni. Non è un caso, questa doppia misura. L’incensamento di Englaro, l’onorifi­cenza, sono l’altra faccia della solitu­dine e spesso dell’abbandono in cui vengono lasciate in Italia migliaia di fa­miglie con un malato o handicappato grave in casa. Perché oggi chi vuole 'staccare spine' è funzionale a un cer­to atteggiamento, e allora va in tv; chi invece con coraggio, e spesso con e­roismo, si tiene in casa quel figlio, quel­la madre, non fa notizia. E per di più è lasciato solo ad affrontare Inps, Asl, Co­muni: che scrivono un sacco di racco­mandate, tutti gli anni, come ignoran­do che una donna in stato vegetativo al girare dell’anno non cambia il pro­prio stato. E allora questa differenza di trattamento suona affronto, per citare un termine usato ieri dall’arcivescovo di Firenze, Betori. Affronto magari bi­slaccamente distratto, di certo ideolo­gico, a tutti quelli che il loro caro se lo tengono, se lo curano, sacrificando vi­ta e lavoro, semplicemente perché lo a­mano così, malato com’è. Il signor Englaro ha detto di sua figlia in un’intervista: 'Ogni volta che la guardavo, avrei spaccato il mondo per la rabbia. (...) La mia creatura era vitti­ma di violenza inaudita, anche se a toc­carla erano le mani delle suore'. E ha condotto fino in fondo la sua batta­glia, nel segno della ribellione al de­stino toccato a sua figlia, e a lui. Ha vinto, a suo modo, ed è diventato un alfiere della libertà - nel senso in cui si intende oggi questa parola. A Firenze l’hanno detto chiaro: Beppe Englaro, in sostanza, è un eroe, o almeno un modello. E poi ci sono mille Cesare Lia. Le loro storie restano oscure. Che notizia c’è in una malata immobile nel suo letto e a­morevolmente accudita? La notizia ta­ciuta è l’infinita fatica e dedizione, e a­more, che mille e mille italiani dedica­no ai loro cari. Non riceveranno, dalle loro città, alcuna cittadinanza onora­ria. Invece, tanta posta: richieste di cer­tificati, grane, ingiunzioni - la macchi­na della burocrazia che si inceppa e si accanisce. Con l’onoreficenza di Firenze Englaro è un modello, un maestro. E’, quella pergamena, cosa ben diversa dal mo­strare solidarietà umana o pietà per la sua drammatica storia. Firenze mate­rializza in una sorta di medaglia al va­lore il sentire di una parte del Paese: minoranza forse, però rumorosa. Gli altri, i Lia e quelli come lui, militi ignoti di una paziente oscura guerra, che con­tinuino a combattere, perfino con l’In­ps, senza riconoscimenti. Quella fati­ca, quel dolore che non diventa rab­bia, non piacciono. L’ordine è: stacca­re la spina. E questo tempo si sceglie dunque i suoi eroi.
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