Disinformazione: il vero punto
venerdì 27 aprile 2018

Quella che viene già definita una «stretta» dell’Unione Europea contro le fake news e la disinformazione online (ma perché solo online, poi? nessun medium è immune!) in realtà appare ancora una dichiarazione di intenti più che un programma vero e proprio. Tuttavia con la comunicazione arrivata ieri da Bruxelles, dopo la vasta consultazione pubblica condotta dalla commissaria Mariya Gabriel su incarico del presidente Juncker a partire dal novembre 2017, arriva anche la conferma di quanto sia ormai forte la consapevolezza della gravità della questione. Viene finalmente formulata una definizione chiara del fenomeno: fake news è una «informazione rivelatasi falsa, imprecisa o fuorviante concepita, presentata e diffusa a scopo di lucro o per ingannare intenzionalmente il pubblico, e che può arrecare un pregiudizio pubblico».

E quello che pare interessante, ma non sufficientemente tematizzato, è che per la prima volta – pubblicamente, anche se non del tutto esplicitamente – viene messa in questione l’equazione "vero è ciò che funziona" o "ciò che serve allo scopo va bene".
Il fine non giustifica i mezzi, mai, tanto più se il fine è il potere di pochi. Io sto con Hannah Arendt, per la quale usare la logica mezzi/fini significa essere disposti a trasformate presto o tardi i fini in mezzi. Compresa la vita umana.

Cosa sono le fake news? Sono armi nella guerra dell’informazione, che ha come posta in gioco il potere. Presuppongono la comunicazione concepita come una guerra, secondo un modello antagonistico per il quale non si tratta di confrontarsi, ma di schierarsi, e lo scopo non è dialogare, bensì annientare un nemico, con ogni mezzo. Le fake news (che non sono certo nate con i social network) sono arma efficacissima. Non sono una aberrazione, ma la logica applicazione di un modello di comunicazione al quale ci siamo ormai adattati, senza nemmeno più riconoscerlo. Sono la punta di un iceberg, e concentrarsi sulla punta visibile, nonostante tutte le buone intenzioni, non risolverà l’enorme problema sommerso.

Per carità, va benissimo la tracciabilità delle notizie (giusto sapere da dove arrivano i prodotti che mangiamo, e conoscere anche la "filiera" delle notizie). Va benissimo il fact-checking (la verifica dei fatti, anche se un fatto vero, e magari secondario, può sempre essere usato per distogliere l’attenzione da un fatto ben più importante, che viene taciuto; o un fatto vero pubblicato "a orologeria" comporta un elemento di inganno).

Bene anche la Commissione europea indipendente di fact-checkers (ma chi valuta l’indipendenza dei valutatori?). Bene la sorveglianza sui contenuti acchiappa-clic, che servono a far passare una quantità enorme di propaganda commerciale e politica. E ottima cosa anche invitare gli Stati nazionali al sostegno dell’informazione di qualità sui media tradizionali: ce n’è assai bisogno! Ed è più che opportuno, e tutela i più deboli, che si cerchi di dotarsi di criteri perché il mondo dei media tradizionali e digitali (la distinzione tra essi rispetto ai contenuti non ha più molto senso, quando i tg riferiscono cosa ha detto il politico di turno nell’ultimo tweet...) non diventi un Far West.

Eppure, benché necessarie, non sono le procedure che ci salveranno. In maniera solo apparentemente paradossale, esse rischiano di essere insieme troppo e troppo poco.

Troppo se si vagheggia, al di là delle dichiarazioni in senso contrario (nessuno proporrà mai, almeno si spera, un "Ministero della Verità" stile Orwell) la possibilità di un controllo che elimini il rischio di manipolazione. Nessuna procedura, per quanto ben congegnata, rende immuni da questo rischio: si potrebbe portare l’esempio di ambiti in cui i protocolli che dovrebbero garantire la qualità sono ormai consolidati, come quello della produzione scientifica delle università, e i deludenti risultati a fronte dell’enorme appesantimento burocratico, ma questo è solo uno dei tanti casi.

Il rischio della censura, o di nascondersi dietro le procedure per 'silurare' chi dice verità sgradite, non è mai scongiurabile. Vanno comunque posti limiti, ma dove, e da chi? Chi assicura che questi limiti non vadano alla fine a scapito della libertà di informazione? E, contemporaneamente, le procedure non bastano, perché la verità non è mai del singolo fatto. Come ha scritto papa Francesco nel messaggio per la 52ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, «la verità è della vita intera».

Frammentare, separare, ridurre vanno contro la concretezza della verità, complessa e multidimensionale, materiale e spirituale, singolare e universale. Pensare per esempio che si possa essere esecrabili in privato e affidabili in pubblico è fabbricare fake news; o tacere dei costi che pagherà una parte dell’umanità perché un’altra possa trarre vantaggio da una scelta economica: la vita è una, ed è intera. Siamo disposti a riconoscerlo e a prenderci le responsabilità che ne derivano? Certo, le procedure sono meno impegnative.

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