Questa triste fine d’anno, con speranza
sabato 6 giugno 2020

Passare davanti alle scuole in questi giorni è triste. Chiuse, e da mesi: i cancelli serrati, l’erba alta nelle aiuole. E che silenzio nelle mense, e sulle scale, che bolla di vuoto nei cortili abbandonati. Questo, sarebbe il tempo dell’ultimo giorno di lezione. Ognuno di noi se ne ricorda. Lasciarsi dietro l’aula deserta e le ultime parole di analisi logica sulla lavagna, che sarebbero rimaste lì per tre mesi. Correre giù per le scale, vociando, i libri nello zaino come un peso di cui finalmente si era liberi. E, davanti, l’estate: già fuori dal portone il profumo dei tigli in fiore inebriava. Era bello, l’ultimo giorno, e un po’ malinconico, perché scuola erano anche gli amici, i professori amati o detestati; malinconico, perché un piccolo pezzo di vita era finito.

Sì, perché scuola è istruzione e, più profondamente, educazione umana. Ma, anche, scuola è vita. È l’officina dove si impara a stare con gli altri. A misurarsi, scontrarsi e incontrarsi, a ubbidire o a contestare. A essere solidali, o prepotenti, oppure ai prepotenti ribellarsi. Ogni classe è una palestra dove fin dalle elementari si impara sì, a scrivere e leggere, ma più ancora a stare al mondo. A diventare grandi. Ed è questo che l’epidemia e il blocco delle lezioni ha di colpo eliminato.

È possibile magari che con la didattica on line si riescano a dare le nozioni previste dai programmi. Ma 'scuola' è tutt’altra cosa, e molto più grande. Non vi ricordate, già in prima elementare, lo scoprire che c’era chi era più bravo e chi restava indietro? E il germe della solidarietà, oppure dell’invidia, che spuntava. E alla campana della ricreazione quel correre in cortile e fare capannelli vocianti, e già c’era un capo, e già c’era chi veniva lasciato fuori. Ma, spesso, due solitari diventavano amici.

Puntuali, la mattina, alla battaglia quotidiana: con la trigonometria o il latino, o con una solitudine interiore che spingeva a cercare un professore più attento, che avesse una strada da indicare. Che individuasse magari, sconosciuta a noi stessi, una vocazione.

Ogni classe di scuola è una storia. Il brivido quando il professore scorreva il registro, cercando chi chiamare, non lo ricordate? E l’interrogazione dei più somari, quando dai banchi, mossi a pietà, i compagni suggerivano senza pudore? (Ricordo con gratitudine quando suggerivano a me, paralizzata davanti ai seni e coseni, alla lavagna). Tra i banchi, a sedici anni, ci si innamorava. Chi ha dimenticato quei primi sguardi?

Immagino che ora le cose siano parecchio cambiate. Eppure a quindici anni quel sussultare, quell’essere felici e sognare che sarà per sempre, non esistono ancora? E ciascuno intanto cresce e assume, nella compagnia quotidiana, il suo volto da adulto.

Nel mio liceo c’era un professore di latino e greco bravissimo, che aveva avuto un ictus. Era in carrozzella e parlava con un po’ di fatica, ma perfino io, alunna distratta, se stavo attenta capivo. Ci fu però una sollevazione dei primi della classe: la malattia del professore ritardava il programma, e ci aspettava la maturità. Molti ragazzi, e genitori, chiesero che il professore se ne andasse. Io non ero d’accordo, ma non feci niente - e ancora adesso ne provo vergogna. Però non mi sarebbe più successo, di stare zitta quando dovevo parlare.

A scuola si impara, e molto più che la matematica o l’inglese. Si vive e si cresce nel continuo confronto con l’altro, che provoca e domanda. Niente potrebbe sostituire il vivaio che ogni scuola è, nel bene e nel male. Perfino dove c’è bullismo, c’è un modo per affrancarsene, per imparare a non subire. Per questo gli istituti vuoti del giugno 2020 immalinconiscono: vita che non c’è stata, aule da cui a marzo si è scappati come in un terremoto. Inevitabile, certo. Ma quanto spero che le scuole silenziose di questo giugno di pandemia siano di nuovo abitate a settembre, e colmate di voci e di facce di ragazzi.

Che scoprano, in un libro o in una poesia, o nelle parole di un professore, qualcosa che li tocca e li riguarda da vicino - qualcosa da cui partire. Così che si rinnovi la catena delle generazioni e la memoria, e la ragione del vivere insieme. Faccia a faccia. Perché troppo grande è la scuola perché possa ridursi nel virtuale, perché possa stare nel piccolo schermo di un pc.

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