venerdì 6 gennaio 2012
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Questo tempo di Natale, e di passaggio tra il vecchio e nuovo anno, dovrebbe farci riflettere in positivo – pur nel pieno di questa fase di crisi economica e morale – su quello che verrà, sulla rinascita della società, delle nostre comunità. Certo, gli strumenti di analisi di cui comunemente disponiamo si fermano alle impressioni di superficie, prevalentemente di stampo negativo. Si insiste, ad esempio, sulla inquietudine e sulla insoddisfazione di fronte alla vita, alla politica, all’Europa, più che sulla speranza; sulla paura delle diversità e dell’incertezza, più che sulla fiducia; sullo spaesamento e sulla solitudine, più che sulla forza del fare comunità. Ma forse dovremmo cominciare ad ammettere che i nostri abituali strumenti di analisi non sono in grado di guardare nel profondo dell’animo umano, là dove risiedono i grandi desideri e le grandi aspirazioni, quelle che stridono con il turbinio della vita moderna e con il generale clima di ansia e preoccupazione. Comunque sia, sono almeno tre le aspirazioni profonde dell’uomo moderno che vengono a galla quando si guarda più in profondità, e che dovrebbero trovare anche in questo tempo speciale un loro spazio. Innanzitutto, l’attesa di una nuova vita. Un’attesa in contraddizione con la filosofia dominante del vivere nell’attimo presente, senza passato e senza futuro. L’uomo di oggi ha, in realtà, un grande bisogno di prospettiva e di attesa di ciò che verrà. «Il pomeriggio e il tramonto sembrano avere il sopravvento sull’aurora, in questo stanco occidente», si annota. Ma al fondo del proprio io si desidera guardare in avanti, alla luce del domani, alle cose nuove da cominciare. E la festa del Natale di Gesù Cristo, che aspettiamo per settimane e mesi, parla a tutti – ma proprio a tutti, credenti e no – della nuova vita, del nuovo anno, dei nuovi progetti, della nuova primavera, della rinascita e rigenerazione di ciascuno di noi su basi nuove, attorno a nuove idee e a nuovi obiettivi. In secondo luogo, la generatività. Una società in cui ci si sposa sempre meno e sempre più tardi e si fanno sempre meno figli (nel 2010 ne sono nati 15.000 in meno ci dicono Istat e Censis) può sembrare assurdo sostenere che esista una voglia di maternità e di paternità. Eppure emerge che ci si sente "realizzati" più quando si genera un figlio di quando si conquista un qualche bene materiale. Il rapporto educativo e di mutuo sostegno tra le generazioni è, ancora e sempre, uno degli aspetti della vita più sentiti, nel momento del bisogno ma anche in quello della relazione e del conforto. Il figlio è oggetto del desiderio di donne e uomini sposati e non sposati, aspirazione a volte considerata irrealizzabile, ma profondamente radicata. E il Natale ci parla proprio della vita che si rinnova di madre in figlio e di padre in figlio, della storia dell’umanità che si fa attraverso le generazioni, con la trasmissione delle eredità comuni. Infine, il dono. Icona storica del Natale anche "pagano", il dono non è solo frutto del consumismo e del marketing commerciale dei nostri giorni, né solo appagamento di desideri egoistici. Il prepararsi a offrire doni alle persone più care è anche segno di una valorizzazione dei rapporti di scambio gratuiti e basati sull’affetto. In una società improntata al profitto e al calcolo economico, tutti in realtà aspiriamo a rapporti sociali e umani disinteressati, a dare qualcosa di noi agli altri, a ricevere dagli altri una offerta gratuita. L’amore come dono disinteressato di sé può sembrare, sullo sfondo della società moderna, un concetto privo di senso. In realtà il vissuto degli uomini e delle donne del terzo millennio registra una aspirazione, spesso nascosta ma presente, a forme di amore disinteressato. E la gratuità del dono è appiglio della speranza in un mondo migliore, dove ogni cosa ritrovi il suo posto, e dove si ricrei quel tessuto collettivo che solo può produrre la ricostruzione della energia necessaria per la ripresa anche sociale e economica.
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