giovedì 26 novembre 2009
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A volte una firma è una semplice dichiarazione d’intenti che suona a posteriori come una beffa: è il caso degli impegni a stanziare aiuti per lo sviluppo nei Paesi poveri, rimasti spesso lettera morta dopo i grandi annunci. In altre occasioni, una firma può risultare uno spartiacque simbolico, un gesto di coerenza che pesa molto di più della semplice traccia di inchiostro in calce a un documento. A quest’ultima specie appartiene la mancata sigla da parte americana, ieri ribadita, del Trattato per la messa al bando delle mine antiuomo. Non era una precisa promessa elettorale di Obama, ma sembrava quasi un "dovere" dopo il conferimento al presidente Usa del Nobel per la Pace, che ritirerà a Oslo il prossimo 10 dicembre, pronunciando un discorso dalla stessa tribuna da cui nel 1997 si affacciarono proprio gli attivisti della campagna contro i subdoli ordigni. Un riconoscimento meritato, quello, si potrebbe dire oggi, soprattutto nel confronto con l’assegnazione di quest’anno. Nei dieci anni dall’entrata in vigore della convenzione internazionale, finora sottoscritta da 156 nazioni, il commercio ufficiale si è di fatto annullato (resta quello clandestino), la produzione risulta drasticamente ridotta, l’uso limitato a Myanmar, Russia e gruppi di guerriglieri in sette Paesi.Gli Stati Uniti hanno messo in atto una moratoria di fatto: ufficialmente non usano le mine dalla Guerra del Golfo del 1991, non le esportano dal 1992 e hanno cessato di produrle nel 1997. Ma il Dipartimento di Stato ha fatto esplicitamente sapere, alla vigilia della Conferenza di revisione in programma a Cartagena, che «non saremo in grado di assicurare la sicurezza nazionale e di garantire gli impegni assunti con i nostri alleati se adottassimo il Trattato». E, dunque, Obama continua a non firmare, come i suoi predecessori, in compagnia di Mosca, Pechino e New Delhi tra i decisi avversari del bando totale. Negli arsenali americani resteranno 10 milioni di mini-bombe pronte, all’evenienza, a essere collocate in teatri di guerra che, a parere dei generali, dovessero richiederlo. L’iperpotenza, insomma, non vuole legarsi le mani di fronte a scenari in evoluzione, benché attualmente si attenga alle indicazioni fatte proprie esplicitamente da oltre l’80% degli Stati del mondo. Il leader Usa aveva annunciato in campagna elettorale una maggiore adesione agli accordi internazionali, il cui "disprezzo" manifestato da George W. Bush era stato una causa della diffusa diffidenza verso la precedente Amministrazione di Washington. Il "no" confermato in queste ore alla convenzione sulle mine antiuomo segnala che l’arrivo alla Casa Bianca ha fatto prevalere in Obama il realismo sui buoni propositi: le ragioni del Pentagono pesano più delle proteste delle Ong. Certo, la decisione del presidente potrà piacere ai repubblicani e tutti coloro che ritengono pericolosi i cedimenti sul fronte della difesa in un periodo di mille minacce terroristiche. Ma qualunque considerazione sembra scolorire quando si consideri che le mine uccidono soprattutto a conflitti terminati, e uccidono per lo più i civili, e uccidono i bambini in particolare, i più indifesi davanti alle trappole. Le persone colpite nell’ultimo decennio sono state 73mila, 5.197 l’anno scorso; senza considerare che gli ordigni antiuomo depauperano zone già povere sottraendo campi all’agricoltura e strade ai trasporti. Insomma, un brutto segnale dall’Amministrazione Obama, anche in prospettiva. Non si attendono buone notizie nemmeno per il Trattato sulla messa al bando delle altrettanto devastanti cluster bomb, le bombe a grappolo, al quale gli Usa hanno opposto finora un secco rifiuto.
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