sabato 13 agosto 2016
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Basta parlare di emergenza migranti in Italia. Perché non c’è. Un esempio? Milano, a prestare fede al dibattito politico e mediatico di qualche giorno fa, pareva sul punto di collassare. Invece, la caserma che risolverà il problema della mancanza di posti nelle tende sarà disponibile tra «due-tre mesi», senza grandi problemi. Ma dilaga il solito e nocivo allarmismo che stressa e persino incattivisce parte dell’opinione pubblica, per riempire il vuoto estivo di notizie e idee di certe redazioni e a causa delle strumentalizzazioni di una politica incapace in tutte le stagioni, e a ogni livello (fino a quello europeo), di governare il problema dei flussi migratori forzati. Un nodo ormai strutturale.

Nemmeno i dati dell’agenzia europea Frontex diramati ieri, che pure lascerebbero intravvedere dai titoli strillati delle agenzie un allarmante aumento del 12% degli sbarchi a luglio danno ragione ai fan dell’emergenza migranti. Se ne facciano una ragione: siamo allineati ai numeri del 2015, quando era pure aperta, e drammaticamente percorsa, la rotta balcanica verso la Germania e il Nord Europa. Resta poi da capire come possono 95-100 mila persone arrivate in sette mesi via mare come un anno fa costituire realisticamente un’emergenza. Semmai, come ha detto il prefetto Morcone, il problema sono i blocchi alle frontiere francese e svizzera, a Ventimiglia e a Chiasso, che provocano la presenza affannata sul territorio di 145 mila persone circa.

Ma anche qui nulla di nuovo e di specialmente tragico. Non abbiamo forse vissuto e superato l’anno scorso analoghe tensioni, con la chiusura delle frontiere tedesche e francesi e poi con il blocco del Brennero, che hanno portato agli “accampamenti” nelle stazioni di Roma e Milano? E gli svizzeri non sono forse da anni in fibrillazione ai propri confini? Ma ci si domanda anche, sul piano interno, che ruolo politico voglia giocare su un tema così serio, il centrodestra – area cruciale e in cerca di rifondazione – che negli enti locali dove governa sembra non riuscire a produrre altro che “no” sistematici e ostruzionismo a tutte le soluzioni di prima accoglienza, dalle caserme alle tendopoli. Non si può pensare di risolvere il problema dei flussi con lo stentoreo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Quali sono, per esempio, le proposte realistiche messe in campo dagli amministratori regionali – che hanno fondi per la cooperazione – per la democrazia in Eritrea e nel Ghana o per far finire le persecuzioni di Boko Haram in Nigeria o per combattere la miseria generata dai mutamenti climatici in Senegal e Niger o la carestia in Etiopia? Sono questi i Paesi da cui vengono tanti dei “nostri” richiedenti asilo.

Insomma, l’unico passo avanti del 2016 è stato il consenso trasversale (anche obtorto collo) sull’intervento umanitario per salvare i migranti alla deriva sui barconi, mentre fino all’estate scorsa fioccavano sparate isteriche per reintrodurre i respingimenti in mare o sancire la “legittimità” anti-scafista dell’affondamento dei barconi... Poi, la morte del piccolo Aylan – dicono autorevoli sondaggisti – ha convinto gli imprenditori politici della paura a darsi una calmata. Ma l’emergenza vera restano i 3.000 morti in mare contati fino a ieri.

Quello che non cambia purtroppo è il taglio emergenziale del sistema di accoglienza gestito dal governo Renzi. Ecco perché realtà ecclesiali in trincea come la Caritas di Bolzano chiedono a Stato ed enti locali di uscire da questa logica. Si chiamano fuori per puntare sull’integrazione, la grande sfida. Anche se in caso di emergenza vera nessuno si tirerà indietro. È una provocazione positiva, da raccogliere per migliorare le cose coinvolgendo, come vuole il piano del governo e dell’Anci, il maggior numero di Comuni nel sistema di accoglienza degli enti locali, che è molto più efficiente. Se si strutturasse un’accoglienza diffusa sul territorio nazionale, si potrebbe arrivare alla quota sostenibile di 2-3 rifugiati ogni mille abitanti di cui si parla da qualche giorno. Insomma: adesso ciascuno faccia la sua parte. Anche per alleviare i disagi per quel pezzo d’Italia che accoglie, fatica e deve sopportare le ricadute dei “no” a ogni costo di qualcun altro.

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