venerdì 14 febbraio 2014
​O tutto o niente. Questo dice Matteo Renzi al suo Partito democratico e al Paese...
di Marco Tarquinio
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O tutto o niente. Questo dice Matteo Renzi al suo Partito democratico e al Paese. E piuttosto che accontentarsi di qualcosa di meno di una «legislatura costituente» o di una rapidissima corsa alle urne, caschi il mondo. Anzi caschi il governo. E il governo, alla fine, è caduto. Enrico Letta oggi rassegnerà le dimissioni. L’esecutivo «di servizio», nato in primavera quando nessuna maggioranza era possibile e nessun governo era immaginabile, sopravvissuto alla gracile logica del giorno per giorno e alla robusta prova autunnale della doppia spallata berlusconiana, lascia dunque il campo nell’inverno dello scontento renziano. Con un bilancio in chiaroscuro e con il rimpianto di aver subito a lungo e su questioni chiave i paralizzanti diktat dei suoi grandi azionisti (il Pdl che non c’è più, il Pd che c’è ancora, ma sta cambiando pelle) e di non poter guidare e intestarsi una risalita che in una desolante povertà di mezzi (resa più acuta dalla pressoché totale rinuncia all’Imu sulla prima casa) ha faticosamente propiziato. Una ripresa che, paradossalmente, proprio in queste ore appare più possibile e addirittura a portata di mano.Non sarà una «staffetta», rivendica ora il segretario del Pd, ma un fattivo «cambio di direzione» nel gestire questa fase difficile eppure promettente al cospetto di un’opinione pubblica esigente e reattiva. Un cambio forte, dunque. Se non fosse così, tutto quello che sta accadendo sarebbe incomprensibile. E autolesionista.Non si licenzia un premier-cireneo come Enrico Letta per mettere in croce un Paese intero, per disarmare al buio una maggioranza di scopo tra distinti e (anche molto) distanti e per azzardare – in un panorama intasato di discontinuisti e antagonisti – una scommessa elettorale tutta giocata sulla discontinuità sia rispetto alla classe politica della cosiddetta Seconda Repubblica sia rispetto alle urgenti azioni di governo che hanno impedito la caduta dell’Italia nella spirale di una crisi "alla greca". Non si riapre la partita con alleati provvisori, o addirittura meno che temporanei come nel caso del Nuovo centro destra di Angelino Alfano, senza essere disposti a trovare le necessarie e salde mediazioni programmatiche e a ridurre al minimo il gioco delle maggioranze variabili su questioni tutt’altro che marginali (ciò che Renzi poteva permettersi da segretario del Pd, non è ciò che potrà fare da segretario-presidente del Consiglio). Non si mette a rischio il gran risultato di essere riuscito a fissare i capisaldi di una riforma politico-istituzionale di sistema grazie a un’intesa ampia, a partire dall’accordo con Silvio Berlusconi e la sua rinata Forza Italia, senza avere le energie, la lucidità e la pazienza necessarie per far procedere sui loro binari (non necessariamente stabili e non sempre paralleli) azione di governo e azione di riequilibrio delle regole "di tutti".La scelta di Renzi è netta, l’impegno è assunto col piglio di chi si brucia ponti e vascelli alla spalle. E la maggioranza schiacciante con la quale la direzione del suo partito l’ha assecondata dice che questa è già, anche e comunque, una vicenda "elettorale". Il sindaco uscente di Firenze e premier entrante ha ingaggiato una partita che si concluderà, in ogni caso, con un voto di approvazione o disapprovazione degli italiani. Quanto presto o quanto tardi lo capiremo nel giro di pochissimo tempo. Rottamato (dopo aver tenuto in sostanziale vita sospesa) quel che restava del governo delle larghe intese, o il Pd renziano riesce a costruirne uno che si dimostri subito vero, affrontando i problemi veri delle famiglie e delle imprese vere dell’Italia vera, o alle urne non si arriverà per scivolamento, ma di slancio. E non sarebbe un percorso trionfale per nessuno.
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