martedì 3 settembre 2019
Magistrati e avvocati assieme per risolvere il vero nodo: il rilancio dei riti alternativi
Giustizia penale, la riforma è possibile se i protagonisti partecipano
COMMENTA E CONDIVIDI

Un vecchio magistrato del Novecento, volendo spiegare le ragioni del fallimento del pur perfetto Codice di procedura civile del 1940, raccontava che Arrigo Solmi, il giurista-ministro che lo aveva messo in cantiere, aveva maturato l’idea durante una sua visita a Lipsia. Entrato in Tribunale, aveva intravisto, dietro una porta, alcuni signori che discutevano, seduti intorno a un tavolo. «Chi sono?», aveva chiesto. Gli risposero: «È un giudice che sta discutendo una causa con gli avvocati delle parti». Solmi era rimasto folgorato: «Faremo anche noi un processo come questo: rapporto diretto tra le parti; oralità; concentrazione e immediatezza». Un codice che – come lo stesso ministro proclamerà in un discorso del maggio 1939 – avrebbe portato nelle aule giudiziarie »una forma e un costume agili e pronti, una giustizia rapida e umana, aderente all’anima popolare».

Sennonché, il codice del ’40, fondato su tali presupposti, presto fallì. Perché – spiegava quel vecchio magistrato – Solmi non sapeva che, per far discutere quei signori di Lipsia, c’erano voluti la stanza, il tavolo, le sedie; cose che spesso, nei nostri Tribunali del 1940, mancavano. Il Codice era stato varato quattro mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Le priorità erano altre.

Il prossimo 24 ottobre il nostro Codice di procedura penale compirà trent’anni. Un Codice – firmato dal grande giurista Giuliano Vassalli – fondato su ottimi princìpi, con finalità che riecheggiavano quelle del Codice del rito civile del 1940: oralità, immediatezza, dialettica paritaria tra le parti. Nel 1989 nei nostri Tribunali non mancavano stanze, tavoli e sedie. Eppure anche questo codice è fallito. Di fronte a processi che, a volte, durano dieci anni e che si celebrano con rinvii di mesi tra un’udienza e l’altra, le sue originarie finalità paiono tristemente irridenti. Quando il codice fu varato, tutti dicevamo: "Potrà funzionare se l’80-90% dei processi sarà definito con i riti alternativi (l’abbreviato o il patteggiamento)". Così non è stato. E anche il codice Vassalli è affondato.

Perché sono falliti i riti alternativi? Perché è venuto meno il presupposto che li doveva sorreggere: la loro convenienza. L’imputato che, sulla base delle prove raccolte, ritiene probabile la propria condanna, dovrebbe scegliere il rito abbreviato, che prevede una cospicua riduzione della pena (1/3 in meno). Ma se l’imputato sa che, scegliendo il rito ordinario, la condanna arriverà molti anni dopo, sarà tentato di percorrere quella strada. Del resto, più imputati sceglieranno il rito ordinario, più i dibattimenti saranno ingolfati di processi con tempi sempre più lunghi. E ciò spingerà altri imputati, che temono la condanna, a procrastinare i tempi della sentenza, scegliendo anche loro il rito ordinario. E così, le condanne arrivano molto in ritardo. Ma molto in ritardo arrivano anche le assoluzioni. È un male per tutti. In primo luogo, per la vittima, che da quel ritardo si sentirà umiliata una seconda volta. È un male per l’imputato. Comunque. Perché l’assoluzione di un innocente dopo un processo durato molti anni non sanerà il danno subìto da quell’imputato innocente: sappiamo bene che il processo è già di per sé una sanzione; e più dura il processo, più afflittiva è questa sanzione. Ma anche la giusta condanna di un colpevole, se interviene a molti anni di distanza dal fatto, è spesso un’ingiustizia, che viola il principio (stabilito dall’articolo 133 del Codice penale) secondo cui, nel determinare la pena, il giudice deve tener conto del carattere del reo e della sua condotta, non solo antecedente ma anche successiva al reato, nonché delle sue condizioni di vita individuali, familiari e sociali. L’uomo che entra in carcere per una rapina di dieci anni prima è un uomo diverso da quello che commise il reato: nel frattempo, può essersi creato una famiglia, aver trovato un lavoro, scelto un’altra vita. È un male per la fiducia di ogni cittadino verso la giustizia. Perché chi si imbatte contro questa giustizia negata ne sarà scottato per sempre: il cittadino può perdonare molte cose a uno Stato poco efficiente, ma non perdona il giudice che lo delude.

Questo ingolfamento del progetto originario del 1989, provocato dall’intoppo di quel che doveva essere il suo presupposto iniziale, è stato aggravato, negli anni, da un affastellarsi di piccole riforme, a volte buone, a volte pessime, sempre incoerenti. Rattoppi, poco riusciti: anche perché spesso la stoffa del rattoppo non corrispondeva alla stoffa del vestito da rattoppare. Riforme a volte ispirate da moti di opinione pubblica torbidi e fuggevoli e che hanno, sullo sfondo, quella nefasta tendenza culturale chiamata panpenalismo: l’idea che ogni devianza sociale possa avere adeguata risposta sempre e solo con la previsione di un nuovo reato. Dimenticando una verità elementare che anche il semplice buon senso dovrebbe far capire: che più aumentano i processi, più si allungano i tempi di ciascun processo. Nel gennaio 2016, per la verità, sono stati depenalizzati alcuni reati minori (per alcuni dei quali è ora prevista una sanzione amministrativa). Ma questa riforma, utile, non ha invertito la tendenza di fondo alla continua creazione di nuovi reati.

Uno sguardo pacato su questa realtà porta a una constatazione incontestabile: un sistema che veda, insieme, obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio normalmente percorsi senza filtri; blocco del turn over per il personale amministrativo (dal 1996 al 2016 non ci sono stati concorsi per assistenti giudiziari), è un sistema che non regge. A essere sinceri non ha mai retto. Ma, fino al 1992, si poteva far finta che reggesse grazie alle amnistie che, ogni tre o quattro anni, ripulivano gli armadi dei magistrati da pile di fascicoli per reati minori: dalla Liberazione al 1990, abbiamo avuto 28 amnistie. Nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere un’amnistia, fosse necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. E così, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, da allora non vi son più state amnistie. Questo, probabilmente, Vassalli non lo aveva previsto.

Un’unica riforma – concepita da Giovanni Maria Flick nel 1996 (!) e realizzata da Andrea Orlando nel 2015 – ha cercato di sbloccare l’ingolfamento della macchina: l’articolo 131 bis del Codice penale. Che ha previsto la possibilità che, su richiesta del pubblico ministero, il giudice possa escludere la punibilità di alcuni fatti che, pur costituendo formalmente reato, siano «particolarmente tenui». Una tenuità che va verificata in concreto, tenendo conto della lievità del danno, delle modalità e della non abitualità della condotta, con una scelta di buon senso, da praticare caso per caso. Purtroppo, alcuni recenti interventi tendono a limitare, per alcuni reati, l’applicazione di tale norma: un altro rattoppo incoerente, che aumenta i colori di quell’abito di Arlecchino che è diventato il nostro Codice. Valorizzare lo strumento dell’archiviazione per «particolare tenuità del fatto» vuol dire forse rinunciare al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale proclamato dall’articolo 112 della Costituzione? No. Al contrario, l’obbligatorietà dell’azione penale deve rimanere perché è il baluardo dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. È un orizzonte cui tendere. Se vogliamo, è un 'mito'. E i 'miti' non vanno gettati nei ferrivecchi solo perché non riusciamo a realizzarli pienamente. Piuttosto, è necessaria, nella testa degli operatori di giustizia, una piccola rivoluzione culturale che interpreti l’articolo 112 non come principio secondo cui l’azione penale debba essere tempestivamente esercitata per tutti i reati e ogni procedimento debba andare avanti allo stesso modo. Ma come affermazione secondo cui il pubblico ministero non può decidere di non esercitare o ritardare l’azione penale per ragioni di mera convenienza, in modo arbitrario; e nelle sue decisioni non deve subire interferenze di altri poteri.

Rimane però la domanda di fondo: come accorciare i tempi del processo penale, posto che i tanti rattoppi di questi ultimi trent’anni non ci sono riusciti? A essere sinceri, non si vedono all’orizzonte proposte di soluzione definitive.

Una cosa è sicura: l’eccessiva lentezza dei processi può essere affrontata esclusivamente con un’organica rivisitazione delle procedure e delle tante regole disordinatamente affastellatesi negli ultimi decenni. Una rivisitazione che lasci intatte e magari renda più salde le norme che realmente garantiscono il diritto del cittadino-imputato di rivendicare la propria innocenza (o anche solo di attenuare le conseguenze della pretesa punitiva della collettività); e, allo stesso tempo, di eliminare le norme che semplicemente sono utilizzabili per rallentare il corso della giustizia. Questa impresa ha però bisogno di un’ampia elaborazione culturale, che sappia ispirare le scelte affidate alla politica e che, certo, non può riguardare solo i magistrati. Parafrasando Clemenceau: la riforma della giustizia è cosa troppo seria per essere pensata solo dai magistrati. È necessaria e urgente una nuova stagione di dialogo tra magistrati e avvocati: un movimento culturale profondo, alimentato dalla loro comune frequentazione delle aule giudiziarie e dal loro consueto confrontarsi con i problemi della giustizia del quotidiano. Questo dialogo – che ispirò e diede forza al movimento riformatore degli anni 60 e 70 del secolo scorso e che si è spezzato a cominciare dagli anni 80, per contingenze politiche che non è qui il caso di ricordare – è oggi essenziale. Soltanto una ricomposizione della cultura giuridica, una riflessione comune degli operatori di giustizia, che sappia spazzare via le reciproche scorie e resistenze corporative – a volte alimentate dalle inframmettenze di opposti schieramenti politici – può dare fiato e gambe, passione repubblicana, a un pacato intervento del Legislatore non condizionato dalle contingenze del momento politico.

Su questo fronte – così come ai magistrati deve chiedersi uno sforzo coraggioso per superare quella che Calamandrei chiamava la «albagia professionale» che a volte fa credere loro d’essere gli unici detentori della pubblica morale – agli avvocati deve chiedersi una leale e onesta riflessione su regole processuali e prassi professionali che non aiutano la difesa dei diritti e, alla lunga, creano discredito sociale alla stessa avvocatura.

Tutti essendo consapevoli che quel 'populismo giudiziario' spesso giustamente denunciato dagli avvocati (il bisogno immediato della condanna, che si invoca dai media prima che dai Tribunali; l’utilizzo del processo come risposta demagogica all’allarme sociale e come anticipazione della pena; lo 'spirito del popolo' che nella celebrazione del processo deve andare oltre la Legge) è una malattia figlia di frustrazioni alimentate dall’eccessiva durata del processo e dalla nostra incapacità di parlare la stessa lingua e di analizzare, studiare, proporre soluzioni comuni.

Magistrato

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: