L'annuncio tocca ancora gli estremi confini
sabato 27 maggio 2023

«Come sono belli sui monti – canta il profeta Isaia – i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza ». Come sono belli, ma anche fragili e vulnerabili, i piedi dei missionari che – in obbedienza al mandato di Cristo – solcano le strade del mondo, spinti da quell’«Andate» che ha prodotto in migliaia e migliaia di donne e uomini, lungo i secoli, fino a oggi, un impeto incontenibile, un’urgenza implacabile: che il Vangelo, la Buona Notizia per eccellenza, arrivi a tutti. Di questa schiera fa parte il frate trentino Tullio Pastorelli, 60 anni, missionario in Cile che, in aprile, è rimasto vittima di un grave incidente stradale in capitale. Tutto ciò gli è costato l’amputazione di una gamba e dell’altro piede.

Qualcosa di simile era accaduto a padre Norberto Donghi, carmelitano lecchese, nel febbraio scorso, in Centrafrica: la jeep con la quale si stava dirigendo in un villaggio della sua missione è saltata su una mina. Il settantunenne missionario è stato miracolosamente salvato, ma anche a lui, dopo una serie di ricoveri in vari ospedali, tra Centrafrica, Kenya e Italia, i medici hanno dovuto amputare un piede.

La terza storia arriva anch’essa dal Centrafrica, dove a metà aprile padre Arialdo Urbani, betharramita valtellinese, 83 anni, è saltato su una mina. Lui, fortunatamente, è rimasto illeso (come già due anni fa, in una circostanza simile); purtroppo, però, tre persone che viaggiavano con lui sono morte. Il dettaglio dei piedi amputati mi ha rimandato a una celebre preghiera citata nel Quinto evangelio di Mario Pomilio (un capolavoro che purtroppo, temo, tanti cattolici non hanno mai letto). Dice quel bellissimo testo: «Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare oggi il suo lavoro. Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri. Noi siamo l’unica Bibbia che i popoli leggono ancora, siamo l’ultimo messaggio di Dio scritto in opere e parole». Vero è che, da decenni, i missionari e le missionarie si spostano con ogni mezzo possibile.

Ma – l’ho constatato di persona, nel corso di tanti viaggi extraeuropei – c’è sempre un ultimo miglio che percorrono a piedi. Perché in certe periferie urbane i mezzi pubblici non arrivano, perché la condizione delle strade in alcuni periodi dell’anno non permette l’accesso dei mezzi a motore, o perché certi villaggi li raggiungi solo così: padre Daniele Badiali, per celebrare la Messa in alcuni caserios sulle Ande peruviane, si sobbarcava sei ore di cammino. Non so se sia retorico definire i missionari “gli ultimi nomadi”. So però che ancora esistono donne e uomini che – nell’era della realtà virtuale, dell’intelligenza artificiale e dei viaggi sulle autostrade informatiche – calpestano strade assolate, consumano suole, mangiano polvere e incontrano persone in carne e ossa. Lo fanno spesso anche in zone che i calcoli umani consiglierebbero di evitare. Zone pericolose per la presenza di “ribelli” o perché infestate da mine, tragica eredità di conflitti precedenti o ancora in corso. Conflitti derubricati, spesso, “a bassa intensità”, ma che producono migliaia di morti: mamme, papà, bambini che vengono a mancare non meno intensamente che le vittime di conflitti più mediatici. Il missionario, per definizione, non è uno che aspetta, ma si alza e va. È uno che prende l’iniziativa.

Perché un aspetto ineliminabile della fede è proprio il desiderio ardente di mettersi in gioco, sollecitato da una non meno ardente impazienza: andare per incontrare, per condividere, per annunciare, per testimoniare. E, pure, per imparare che Dio è già lì e che la Grazia, sovente, ha misteriosamente anticipato gli apostoli, di ieri e di oggi. Le vicende dei missionari feriti e i loro piedi amputati rappresentano un vibrante appello, rivolto in particolare ai giovani: chi partirà, adesso? Se «Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri», chi andrà al posto loro?

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