Subito antidoti ai veleni social contro le nostre democrazie
giovedì 6 gennaio 2022

Già era noto il fatto che i social media avessero giocato un ruolo importante nella preparazione all’assalto a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio, in quella che è passata alla storia come una delle pagine più nere della democrazia statunitense. Ora, però, dopo la pubblicazione di un lungo e dettagliato articolo sul 'Washington Post' di ieri, abbiamo una percezione assai più precisa di quanto accaduto esattamente un anno fa. Firmato da quattro esperti, il pezzo del 'Post' (redatto in collaborazione con 'Pro Publica', affermata organizzazione non profit di giornalismo investigativo) documenta come numerosi gruppi di Facebook abbiano contribuito in maniera decisiva alla creazione di quel clima avvelenato nel quale è maturata la sciagurata decisione di invadere il Campidoglio.

Si parla di 10mila post al giorno, un vero bombardamento realizzato nel periodo tra i giorni del voto e, appunto, il 6 gennaio 2021.

La reiterata descrizione dell’elezione di Biden come il risultato di una frode (stessa tesi cavalcata dal’uscente Trump) produsse, come risultato, la 'necessità' di una reazione straordinaria del 'popolo': invocata a gran voce sul tam tam dei social, si concretizzò, alla fine, con tanto di scalmanato sciamano pro-Donald. L’inchiesta giornalistica – come già le rivelazioni di Frances Haugen, ex dipendente che ha lasciato Facebook nel maggio 2021 e diffuso imbarazzanti documenti interni dell’azienda – pone, una volta di più, la domanda su come arginare lo strapotere esercitato da Facebook: un colosso che vanta 2,9 miliardi di utenti, ha un valore di mercato di 800 miliardi di dollari e nel 2020 ha registrato ricavi pari a 85,9 miliardi.

«Un potente monopolio che ha fatto grossi danni, ha abusato della privacy degli utenti e ha fomentato la diffusione di contenuti tossici e dannosi», denunciano Sheera Frenkel e Cecilia Kang nel loro 'Facebook: l’inchiesta finale' (Einaudi), frutto di un colossale lavoro di indagine. Ebbene: ora abbiamo la prova che «il più influente e potente editore del mondo» (definizione di Paolo Pagliaro) è in grado di condizionare (seppure indirettamente) la vita democratica di vari Paesi. L’esempio di Capitol Hill è l’ultimo di una serie di eventi politici-chiave di questo genere, primo dei quali fu il referendum sulla Brexit nel 2016.

In quell’occasione Carole Cadwalladr, reporter del 'Guardian' scoprì e dimostrò come un ruolo fondamentale nell’orientare i votanti al 'Leave' lo aveva giocato la sezione notizie (News Feed) di Facebook, diffondendo messaggi allarmistici circa un aumento esplosivo di immigrati islamici in caso di ingresso della Turchia nella Ue. Due anni dopo, Cadwalladr avrebbe denunciato lo scandalo di Cambridge Analytica, la società di consulenza britannica al servizio della campagna di Donald Trump per le presidenziali Usa, colpevole di aver raccolto e rivenduto i dati di navigazione di uno stuolo enorme di utenti di Facebook. Nemmeno Maria Ressa, giornalista filippina fresca di Nobel per la pace, ha dubbi: «Facebook – ha scritto qualche mese fa – dà la priorità alla diffusione di bugie segnate da rabbia e odio, piuttosto che ai fatti reali».

In sintesi: Facebook si comporta da editore, ma senza sottostare alle regole che gli editori veri sono tenuti a rispettare. È tempo quindi di scardinare definitivamente l’idea della supposta neutralità del Web, un mito che, ahinoi, continua a persistere e a fare danni. Bisogna agire a tutti i livelli: da quello legislativo (la Ue si sta mobilitando per regolare le grandi piattaforme) a quello educativo. Già, perché il punto non è (soltanto) mettere Facebook sul banco degli imputati. La questione è ben più ampia e riguarda pure altri social e altre piattaforme.

Ma qui vogliamo sottolineare il fatto che tra i quasi tre miliardi di utenti di Facebook ci siamo in tanti. Vale forse la pena, quindi, riflettere seriamente sui nostri comportamenti quotidiani, prima di scagliarci contro i Gafa (l’acronimo dei colossi Google, Apple, Facebook e Amazon) e farci qualche domanda su come utilizziamo i nuovi media. Perché quando si veicolano messaggi più o meno violenti sui social altro non si fa se non alimentare un clima di odio che non fa bene alla democrazia. Anche la piccola goccia di un post scorretto contribuisce all’oceano della comunicazione violenta. Se i fumi della disinformazione pilotata e del linguaggio dell’odio non vengono dispersi, il futuro della convivenza civile è destinato a risentirne, negli Stati Uniti come in Italia.

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