Con Giona sulla soglia in attesa dell'ultimo passo di Dio
sabato 30 marzo 2024

Il popolo di Ninive si converte alla predicazione di Giona: tutti, «grandi e piccoli» (Giona 3,5). Non era un esito prevedibile: è una sorpresa per Giona, per il lettore biblico, forse anche per Dio: «Guai a Ninive, alla città sanguinaria, piena di menzogne, colma di rapine, che non cessa di depredare! ... Non c’è rimedio per la tua ferita, incurabile è la tua piaga» (Naum 3,1-19). Dopo il popolo, si converte anche il suo re: «Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere» (3,6). Una liturgia di conversione tutta laica: non si parla di templi, di preghiere, di dèi, ma di sacco che prende il posto del mantello, della cenere che subentra al trono.

Profeta e popolo, un corpo a corpo tutto civile che si svolge nelle piazze, dentro le case, lungo le strade. Giona non va dal re ad annunciargli il suo messaggio. Va invece in mezzo alla gente, lì parla e grida. E il re lo viene a sapere dalla sua gente, lo vede nel suo popolo. Sono i falsi profeti che vanno direttamente dal re, e questa loro prima mossa sbagliata è anche un indicatore infallibile per smascherarli. Il profeta vero parla invece alla gente, perché sa per vocazione e per istinto che la voce che gli parla è presente anche in mezzo alla gente. Noi sappiamo che il popolo invoca anche “Barabba”, può quindi ascoltare le voci sbagliate; ma è sempre questo stesso popolo che ieri ha seguito lo spirito sbagliato che può e deve riconoscere oggi lo spirito buono. E finché questo incontro buono di spiriti non si compie, i profeti veri possono solo aspettare e soffrire, vincendo la tentazione di andare direttamente ai capi che troverebbero a far festa con Barabba e i suoi amici.

In questa conversione collettiva, all’inizio c’è la voce di un profeta, che è il fattore decisivo che innesca il processo. C’è poi un popolo intero che capisce che quella voce sta annunciando un messaggio vero e decisivo, e si converti. Infine, ci sono i re e i “grandi” del potere (mancano solo i sacerdoti, che sono forse parte dei “grandi”). La conversione di Ninive è allora un’icona molto limpida della “tecnologia” dei cambiamenti collettivi efficaci. Ed è quindi anche un’immagine della sussidiarietà: all’inizio c’è una nuda voce, poi la gente, infine i capi. Quando invece i cambiamenti iniziano anti-sussidiariamente dai capi, dai leader - nelle società, nelle comunità, nelle imprese - i risultati non ci sono o sono fragili, emozionali, superficiali, perché le conversioni dei capi non sono quasi mai sincere ma indotte da varie forme di interessi e di strategie. Se invece è il popolo che un giorno sente che è giunta l’ora di cambiare, si sprigiona una forza quasi irresistibile.

Questo è un cambiamento che nasce da dentro, dal basso, in mezzo, spalla a spalla, bocc a a bocca. In questi casi non si agisce per incentivi, per persuasione, per propaganda o manipolazione: è il corpo che si muove, sono i corpi che reagiscono per un richiamo profondo, primordiale, carnale. Si agisce perché non si può non agire, perché si capisce che è in gioco la vita o la morte, niente di meno e niente di più. Quando accade questo, qualche volta anche i “re” seguono, e questo movimento di seconda battuta li fa diventare come tutti. La fraternità, forse, è tutta qui; e quando un cambiamento o una rivoluzione si svolgono nel segno della fraternità-sonorità, nasce e rinasce la comunità di uguali, nasce e rinasce la democrazia autentica perché i ‘re’ dopo queste rinascite non sono più quelli di prima (il problema è poi mantenerli in questo stato di grazia quando si torna alla normalità).

Quando Rosa Parks non cedette nel bus il posto a un uomo bianco e tutti i neri di Montgomery andarono a lavoro a piedi per un anno, forse accadde qualcosa del genere: si mossero prima i piedi poi la testa, quei piedi hanno cambiato i “re” e infine il mondo. La resurrezione è stata qualcosa del genere, perché è stata una faccenda di un corpo, della carne. Quelle donne e quegli apostoli si misero a correre per le strade della Palestina e del mondo prima di capire con la testa cosa fosse realmente accaduto dentro quel sepolcro vuoto.

Che cosa manca oggi nelle nostre non-conversioni globali, dall’ecologia alla pace? I profeti che ripetono da tempo “ancora quaranta giorni...” ci sono, ma manca la carne del popolo, manca il movimento collettivo e globale che vesta il sacco. E quindi mancano i “re” che seguono, che sono invece sempre più isolati nei loro palazzi, catturati dai loro ragionamenti di morte e di potere, sedotti da mille falsi profeti. Manchiamo noi, manchi tu, manco io, intrattenuti a baloccarci con molti “circenses” e poco “panem”, distratti da un capitalismo che inventa ogni giorno nuovi passatempi innocui pur di coprire, confondere e ridicolizzare le voci dei profeti che, grazie a Dio, continuano a gridare. E senza il popolo che si muove, organizzeremo l’ennesimo summit dei re e dei loro aruspici ma non accadrà nulla o troppo poco.

Nel mondo antico, le conversioni avevano i loro segni, che somigliavano a quelli dei lutti - cenere, vestiti diversi, capelli e barba rasati, si mangia diversamente e meno, si interrompono le feste, ci si lamenta, si piange, si grida. Una conversione era faccenda pubblica, perché tutti, anche Dio, devono vedere che è iniziato un processo di cambiamento vero e importante. Chiunque osservava doveva capire al primo sguardo. La Bibbia è piena di questi segni, tanto che la potremmo raccontare attraverso la narrazione dei suoi lutti, penitenze, conversioni, da quelle di Giobbe a quella di Mordecai, da Davide a Rispa, l’eterna madre dei crocifissi (2 Sam 21,10). L’uomo antico sapeva che nelle cose importanti la parola da sola non basta, la voce è impotente. E in una Bibbia che ha dato alla parola uno statuto spirituale quasi infinito, quando occorre dire la vita e la morte la parola tace e lascia spazio al corpo e alle sue estensioni fatte di oggetti; come se quelle “cose” che nelle vicende ordinarie sono quasi mute, nei giorni decisivi diventano più eloquenti delle parole. Noi lo stiamo dimenticando, ma qualche volta ce lo ricordiamo: quando una ciocca di capelli riesce a prendere il posto delle parole diventate mute o zittite.

La Bibbia sapeva e sa che la conversione non è un’idea, che è una realtà, quindi è corpo, è una faccenda sociale - il sociale esiste solo dove esistono i corpi. È ascolto di una parola che convince e la convinzione diventa carne, parola incarnata. Un giorno capiamo - per una parola diversa, per una intuizione più profonda, per un segnale forte... - che dobbiamo cambiar vita, e che dobbiamo farlo veramente perché, se non cambiamo moriamo noi e la nostra gente. Raramente ci ricordiamo che affinché questa risoluzione sincera sia efficace e produca il cambiamento, dovrebbe toccare la carne, non limitarsi alla testa e alla volontà. Che dovremmo cambiare lavoro, città, stile di vita, alimentazione, amicizie, qualche volta cambiare molte cose per non perderle tutte; che non bastano terapie psicologiche o accompagnatori spirituali, perché per cambiare veramente è necessario che tutte le parole diventino carne, o che almeno qualche parola diventi un brandello di carne viva. E poi ricordarci che tutto questo non basta: per provare ad evitare la morte, quella conversione deve diventare plurale: quello che sta avvenendo nella nostra persona e carne deve diventare sociale, lo devo raccontare almeno ad una persona, e chi mi sta attorno ed è coinvolto da quella conversione lo deve vedere e deve partecipare. Una penitenza pubblica è una promessa, è un testamento.

Il testo aggiunge poi un dettaglio importante del decreto del re: «Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani» (3,7-8). Non solo la conversone deve tradursi in giustizia, in economia e diritto (qui c’è tutta la tradizione profetica), ma anche gli animali sono associati a quella conversione, anche loro “si coprono di sacco”. Un passaggio davvero profetico (non c’è nulla di ironico), se pensiamo che oggi molto più che ai tempi del libro di Giona gli animali sono coinvolti nello stesso destino degli uomini, senza esserne responsabili. Gli animali - e le piante... - non sono responsabili del degrado ecologico del nostro tempo, ma non riusciremo a salvarci senza un coinvolgimento di tutte le specie viventi nella soluzione del problema. Quindi il sacco lo dovrebbero indossare tutti, colpevoli e innocenti, come accade quasi sempre nelle conversioni vere, dove anche chi non ha avuto soggettivamente colpe deve comportarsi come se le avesse avute, perché la conversione dei soli responsabili non è sufficiente a sanare la piaga - è parte essenziale del buon mestiere del vivere imparare che ogni tanto dobbiamo partecipare a riparazioni di colpe non nostre. Anche questa partecipazione degli animali alla conversione di Ninive è umanesimo biblico, è espressione della cultura dello shabbat: se nel “settimo giorno” anche gli animali partecipano al riposo della creazione, se in quel giorno anche l’animale smette di lavorare, allora i due lavori e i due destini sono intrecciati e inseparabili.

Alla fine, il re conclude il suo editto con queste parole: «Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!» (3,9). Nei mille passi necessari per raggiungere la salvezza, il profeta, il popolo, il re, gli animali possono fare i primi 999 passi di conversione: l’ultimo però non lo controllano, l’ultimo passo è il passo donato da Dio, dalla Provvidenza, dalla vita, da qualcuno che è esterno al processo - che poi è anche il primo. Finché riusciamo a tener fuori dal nostro dominio l’ultimo passo dei processi di cambiamento c’è spazio sulla terra per l’umiltà vera, per l’attesa, per la speranza, per la mitezza, per la preghiera. Molta parte della fede biblica sta nella consapevolezza di questo ultimo decisivo passo che non controlliamo, e quindi nella coscienza che noi possediamo l’inizio dei processi, che siamo liberi di fare il secondo passo dopo quello del profeta e poi camminare fino al penultimo passo. Nostri sono il cammino delle donne verso il sepolcro e quello dei discepoli verso Emmaus: ma non siamo noi a svuotare il sepolcro, non siamo noi a creare il terzo viandante. La fede nella resurrezione resta viva finché siamo capaci di credere a una parola, metterci in un cammino di conversione, arrivare fino alla fine e lì, sulla soglia, imparare lo stabat, in attesa dell’ultimo passo di Dio. Buona Pasqua!
l.bruni@lumsa.it

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