Spiragli verso un autentico culto. Una metamorfosi necessaria
martedì 5 maggio 2020

Due buone notizie. La prima è la posizione cortese, chiara e decisa dei vescovi sardi sulla posizione del governatore della Regione circa l’apertura delle Messe ai fedeli in tempo di pandemia. In sostanza, hanno detto: “Decidiamo noi, e non siamo stati neppure consultati”. Al di là della politica spicciola, la posizione afferma qualcosa di fondamentale: l’autorità preposta al culto è quella religiosa (di tutte le appartenenze) e, per quanto concerne la Chiesa cattolica, è (come nel dettato del Concilio Vaticano II) quella del vescovo. Rileggiamo la Sacrosanctum Concilium: i vescovi della Sardegna mostrano non solo di averla letta, ma di averla compresa in profondità.

La seconda è quella che riguarda la possibilità, dopo l’intesa su un “protocollo di massima”, di un accordo Chiesa–Stato in Italia per la ripresa delle celebrazioni pubbliche. Il comunicato di sabato 2 maggio, firmato dal presidente della Cei, conferma in ultima analisi quanto in precedenza espresso: la Chiesa italiana non poteva rassegnarsi alla semplice opportunità di celebrare esequie. Con tutto il rispetto per il culto dei morti, che è segno di civiltà, non si poteva avallare l’immagine di un clero funzionario di pompe funebri. Il culto dei defunti va inserito in un contesto liturgico e teologico, che è quello della celebrazione domenicale, ossia della Pasqua, estrapolato dal quale diviene un culto pagano e semplicemente umano, ma non autenticamente cristiano. Risulta quindi affetto da miopia teologica chi legge il precedente “disaccordo” dei vescovi col governo in termini di un braccio di forza fra poteri. D’altro canto, sarebbe teologicamente presbite chi reclama partecipazione al culto senza un orizzonte di senso e soprattutto senza adesione autenticamente credente.

Mentre attendo con trepidazione la possibilità dell’apertura delle celebrazioni liturgiche al popolo credente, mi raggiunge un sintagma dalla Parola di Dio, espressa nella “Lettera ai Romani”. Come deve essere il culto cristiano? Si tratta della “logike latreia”, che incautamente si traduce con “culto spirituale”. La lettera richiede altro approccio: “culto razionale” o “ragionevole”, ossia conforme al pensiero, pensato e vissuto non nella pura formalità esteriore, ma nella consapevolezza di ciò che si celebra. Lutero commenta: «Infatti il vero sacrificio gradito a Dio non si trova al di fuori di noi o delle nostre cose [direi case], non è qualcosa di temporale e non dura un istante, ma siamo noi stessi». Dunque la liturgia [” latreia”] non è venuta mai meno, come mai meno è venuta la Chiesa, mai chiusa e sempre aperta, dato che, come insegnava il teologo Emilio Alberich, la comunità credente si costituisce intorno ai pilastri della koinonía, diakonía, kerygma e liturgia. Stiamo certamente vivendo momenti di comunione ( koinonía), per quanto distanziati nello spazio, ma non nel tempo, anche attraverso i media. Il servizio ( diakonía) è sotto gli occhi di tutti e le cronache non riescono a rendere conto delle innumerevoli esperienze diaconali delle nostre comunità ecclesiali. Possiamo annunciare ( kerygma) la parola e proclamarla nella sua sacramentalità anche attraverso le espressioni multimediali, che la tecnica ci consente. Infine, la liturgia: non si tratta solo dei sacramenti, in quanto la “liturgia delle ore” è vera e propria vita liturgica della chiesa, che in questo tempo si può vivere in forma domestica.

Insistere sulla sacramentalità e sul primato della Parola di Dio (che non si esaurisce nelle Scritture Sante), non significa affatto aderire a quello che l’immaginario collettivo designa come protestantesimo. Certo tale attenzione ci rende complici dei fratelli separati d’Occidente, ma ben venga una feconda complicità. L’attenzione al culto e alla sacramentalità, invece, ci rende vicini e complici rispetto all’Oriente cristiano. Non si tratta di un falso dilemma. Viene incontro alla mia tragica domanda il capitolo IX dell’opera di Pavel Florenskij: “La filosofia del culto”, intitolato, nella versione italiana, “Il culto razionale della parola”. Culto è cultura. E in senso profondo, non si tratta di “meccanizzare” il rito, considerandolo una sorta di artificio della religione. Scrive il teologo russo: «All’esterno c’è il rito, ma per il tramite della parola: “Togli la parola, che cosa ne è dell’acqua? Resta semplice acqua. Unite all’elemento la parola e si ha il sacramento” [riferimento ad Agostino]».

Ancora una volta essere cattolici significa abitare una terra di mezzo (la via media di John H. Newman) fra esclusività della parola e oggettivazione del gesto. Credo che lo stiamo vivendo, magari inconsapevolmente, e, se ne acquisiamo coscienza e conoscenza, potremo forse ritrovarci in un nuovo inizio: quello che chiede Paolo ai Romani: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1). Sarà possibile la metamorfosi del nostro modo di pensare e vivere la partecipazione al culto quando ritorneremo alla partecipazione attiva ( actuosa participatio, già presente in Pio XI prima che nel Vaticano II), come popolo e clero ai santi misteri.

Teologo. Pontificia Università Lateranense

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