venerdì 9 gennaio 2009
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«Sappiamo che sono vive, e stanno bene». L’ambasciatore italiano in Kenya si lascia andare a un’affermazione certa, che subito sembra sentirsi quasi in dovere di attenuare: «Compatibilmente – aggiunge infatti il diplomatico – col fatto che le rapite hanno 67 e 60 anni». Per Margherita Boniver, inviato del ministro degli Esteri in Kenya, «è stato fatto tutto il possibile, ma il quadro è ancora fosco». E dunque anche durante la missione italiana sulle tracce delle due suore rapite a El Wak il 9 novembre scorso, luce e ombra si alternano. Aggrappiamoci alle luci: due operatori sanitari stranieri, è vero, sono stati recentemente liberati nella stessa regione. E un qualche contatto deve pure esistere, se è possibile affermare che le donne sono vive. Ma non ignoriamo le ombre: Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero si troverebbero in territorio somalo, in un’area fuori dal controllo del governo provvisorio del travagliato Paese, e in mano alle bande estremiste delle Corti Islamiche. Più buia ancora la situazione se quella fascia di Corno d’Africa che nasconde la prigione delle italiane è davvero a un passo, dice la Boniver, dal precipitare in una repubblica islamica. E dunque, se le due suore da una vita in Africa fossero nostre sorelle – e per molti di noi davvero lo sono – dal rapporto di questa missione a Nairobi usciremmo divisi tra la speranza, piccola ma precisa, accesa da quella frase – «Sono vive» – e l’oscurità insondabile di cento incognite fuori dalla possibilità di ogni controllo: una terra, la Somalia meridionale, oggi davvero senza tetto né legge; e percorsa, nell’anarchia e nella violenza, dall’ansia di una legge assoluta, totalizzante, probabilmente feroce, certamente non amichevole con i cristiani. È, questo rapporto dopo due mesi di attesa, come quando sulla salute di una persona cara cala una diagnosi il cui nome spaventa, e tuttavia i medici dicono che sussiste una speranza, e che l’esito, qualche volta, è benigno. E si affannano allora i parenti a chiedere percentuali e statistiche: quanto è grande, realmente, quella fetta di speranza lasciata balenare in mezzo al buio? Ma per quanto i medici si sforzino di spiegare ciò che spesso nemmeno loro sanno con assoluta certezza, per quanto si soppesino e confrontino le percentuali di guarigione, non se ne è pienamente rassicurati. «Sono vive, il quadro però è ancora fosco». Come davanti a un responso che ci lasci il fiato di un’attesa nonostante tutto benigna, così possiamo pensare alle due suore con i capelli grigi, prigioniere in qualche oscuro anfratto di savana. Forse non bastano, quelle parole dopo due mesi, per un ottimismo ragionevole. Bastano, però, per un’altra cosa: per sperare. Radicale attitudine degli uomini e straordinaria virtù cristiana: sperare anche, e tanto più, quando non è cosa del tutto ragionevole; sperare e pregare 'contro ogni speranza'. Domandare comunque, al di là di ogni sensata obiezione: a mani tese e vuote. Con quella fede che, diceva sant’Ambrogio, produce i miracoli. Con l’insistenza del bussare, anche se la porta resta chiusa. Senza pretesa, ma nella pura domanda. Forse così sanno pregare Caterina e Maria Teresa, dopo vent’anni d’Africa. Così vorremmo sapere pregare noi per la loro sorte in quella terra lontana. Aggrappati a due parole: «Sono vive», come a una corda esile eppure forte, da cui non mollare la presa.
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