giovedì 28 maggio 2009
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Sembra arrivato il momento, come dice un motto inglese, di mettersi a tavola con il diavolo. Il diavolo in questione è la Corea del Nord, che per ragioni esterne (la crisi globale) e so­prattutto interne (le lotte di potere per la successione a Kim Jong-Il; l’indo­mabile carestia e la disastrosa situa­zione economica) si è fatta sentire a suon di esperimenti atomici, di lancio di missili, di minacce contro chiun­que fermasse e ispezionasse le pro­prie navi, e di denuncia di quel trat­tato di armistizio che dal 1953 tiene lei e la sorella del Sud invischiate in una singolare «guerra-non guerra». I potenziali convitati sono la Corea del Sud, la Cina, la Russia, il Giappone e gli Stati Uniti. Tutti ridotti dal 'muso duro' di Pyongyang ( che lascia in­tendere di esser pronta ad azioni ter­restri) ad uno spazio di manovra mol­to ristretto. Ma è in questo spazio che occorre muoversi, per odioso che sia il ricatto nordcoreano, se si vuole evi­tare un incendio di incalcolabili di­mensioni. Tutti i potenziali convitati ne sono consapevoli, anche se, ovvia­mente, soltanto i maggiori possono sperare di essere ascoltati. La Cina, alleato storico della Corea del Nord (anche militarmente, in chiave anti-americana), dispensatrice della maggior parte degli aiuti alimentari ed energetici necessari a tenere in pie­di la dittatura di Pyongyang, ora si mo­stra prudente al punto di condanna­re le iniziative più pericolose della dit­tatura stessa. E lo fa per diversi moti­vi (il rischio di una militarizzazione di Giappone e Taiwan, la messa a rischio dei propri investimenti, il timore di inquinamento nucleare), ma riassu­mibili in uno solo: il desiderio di sal­vaguardare ciò a cui Pechino tiene di più, la stabilità regionale. Ma la mag­giore novità sul fronte politico-diplo­matico viene adesso dalla Russia. In­fatti Mosca, abbandonando i toni tra­dizionalmente concilianti con Pyongyang, dopo aver condannato assieme a Seul il recente test sotterra­neo nordcoreano, ha preannunciato «misure preventive, anche di caratte­re militare » per impedire uno « svi­luppo incontrollato» della situazione, che per ora affida a una risoluzione dell’Onu «ferma» ma che non sia «fi­ne a se stessa». Manca, al momento, una presa di po­sizione convincente e articolata da parte degli Stati Uniti. Qualcosa cioè che vada oltre la scontata condanna degli esperimenti nucleari e missili­stici e la minaccia di sanzioni finan­ziarie contro la Corea del Nord. La Se­greteria di Stato ammonisce che Pyongyang deve «pagare un prezzo» per l’atteggiamento di sfida alla co­munità internazionale, ma non spie­ga come e se si possa uscire dal pun­to morto provocato dall’Iniziativa di sicurezza contro la proliferazione (nu­cleare) voluta nel 2003 da George W. Bush; iniziativa che prevede anche il fermo e l’ispezione di navi sospette alla quale ha aderito la Corea del Sud provocando le ire di quella del Nord. Quel passo di Bush, accettabile in teo­ria, determinò in pratica un regresso rispetto all’accordo-quadro stipulato da Bill Clinton nel 1994, allora con l’ef­fetto di determinare da parte di Pyongyang il congelamento della ri­cerca nucleare in cambio di cibo e aiu­ti nel settore energetico (anche del nu­cleare civile). In conclusione, mentre Pyongyang fa rullare i tamburi di guerra e si diffon­de il timore più grande, che non è quello del lancio di missili nella re­gione ma della fornitura di ordigni nu­cleari a 'Stati canaglia' o a gruppi ter­roristici, non si vede altra soluzione pratica che invitare il diavolo a cena, per spingerlo a una tregua accettabi­le. Anche perché la sua eventuale im­punità incoraggerebbe l’Iran a se­guirlo sulla sua strada nucleare e ap­punto diabolica.
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