venerdì 15 settembre 2023
Il continente nero produce solo il 3,8% delle emissioni climalteranti, ma le zone povere e con infrastrutture inadeguate pagano un conto economico e sociale molto elevato
I migranti climatici, anche a causa della siccità, saranno 216 milioni nel mondo entro il 2050

I migranti climatici, anche a causa della siccità, saranno 216 milioni nel mondo entro il 2050 - Ansa

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Camminando tra le stradine dissestate del bairro di Macurungo, alla periferia della città mozambicana di Beira, quello che colpiva, quel giorno, erano i panni stesi ad asciugare. Non il loro numero, né i colori invero sbiaditi, quanto il modo in cui erano stati posti. Nessun balcone, nessuno stendino: maglie sdrucite e pantaloni rattoppati stavano a cavallo di pareti sventrate, resti di casupole in gran parte senza tetto che ai loro abitanti concedevano un riparo quasi nullo da vento, sole e pioggia. Due anni prima il ciclone Idai, che nel 2019 aveva travolto anche Malawi e Zimbabwe facendo mille morti e 1,5 milioni di sfollati, aveva devastato questa fetta di Mozambico, seguito nel giro di pochi mesi da altri quattro cicloni importanti. Nessuno, così, aveva mai rimesso del tutto a posto quei quartieri sovraffollati di povera gente. Erano i giorni della Cop26 di Glasgow e, arrivando a Beira, raccogliemmo testimonianze evidenti degli effetti del cambiamento climatico in una regione che mai aveva sperimentato fenomeni estremi in maniera così frequente. Dei grandi discorsi, delle promesse in arrivo dal vertice sul clima dell’Onu, la gente locale non sapeva nulla. Anche perché non solo nessuno del bairro possedeva una Tv, ma quasi tutti erano privi anche dell’energia elettrica. «Le principali vittime del cambiamento climatico sono proprio Paesi come il Mozambico, che da parte loro inquinano molto poco. Che vita e che opportunità avranno i giovani di qui?», si chiedeva amaro in quei giorni l’arcivescovo di Beira Claudio Dalla Zuanna, argentino di nascita ma di famiglia italiana.

L'Africa produce attualmente il 3,8% del totale delle emissioni climalteranti a livello mondiale, a fronte del 23% della Cina, del 19% degli Stati Uniti e del 13% dell’Unione Europea. Eppure siccità, desertificazione e alluvioni sono fenomeni sempre più frequenti nel continente nero, fenomeni che ritardano lo sviluppo di intere regioni e che qui fanno ancora più danni che altrove. Ogni anno, sottolinea un nuovo studio del Fondo monetario internazionale, gli Stati fragili – e l’Africa ne ha tanti, troppi – contano il triplo di persone colpite da disastri naturali rispetto agli altri Paesi. Non solo: quei disastri provocano negli Stati fragili, privi di infrastrutture e di servizi di welfare, un numero doppio di sfollati. Entro il 2040 le previsioni mostrano che questi Stati, che nell’Africa dei golpe a ripetizione vanno dal Mali al Sudan alla Somalia, solo per citarne alcuni, fronteggeranno almeno 61 giornate l’anno di temperature superiori ai 35 gradi, il quadruplo rispetto agli altri Paesi. Ondate di calore estremo che, unite ad altri eventi climatici, minacceranno la salute delle popolazioni, colpendo la produttività di settori chiave come l’agricoltura e le costruzioni. Ancora nei giorni scorsi la città costiera libica di Derna è stata sepolta da un’enorme scia di fango: il crollo di due dighe sul fiume Wadi, provocato dal passaggio del ciclone Daniel, ha provocato migliaia di morti, forse 20mila, e danni a cui sarà difficile far fronte in tempi ragionevoli.

​I costi del cambiamento climatico

I costi del cambiamento climatico, insomma, non sono uguali per tutti. A tre anni di distanza da un evento estremo, sottolinea ancora il Fmi, le perdite in termini di Pil negli Stati fragili sono ancora del 4%, contro l’1% degli altri Paesi. La sola siccità, ogni anno, costa a questi Stati lo 0,2% di crescita del Pil. I conflitti in corso in molte regioni africane, così come la dipendenza da un’agricoltura basata sull’acqua piovana, in mancanza di sistemi di irrigazione soddisfacenti, sono parte dello stesso problema. In Somalia, le zone più devastate dall’insicurezza alimentare provocata dalla siccità del biennio 2021-22 sono anche quelle sotto il controllo dei terroristi di al-Shabaab, che impediscono l’accesso agli operatori umanitari. Gli stessi choc climatici peggiorano le situazioni conflittuali, a causa di risorse sempre più ridotte come terre coltivabili e acqua. Entro il 2060 altre 50 milioni di persone rischiano di essere spinte verso la fame a causa del cambiamento climatico.

Sono tutti temi di cui si è tra l’altro occupato nei giorni scorsi l’African climate action summit che si è tenuto a Nairobi, in Kenya, summit in cui i governi africani hanno siglato una dichiarazione di impegno sullo sviluppo di energie rinnovabili, agricoltura sostenibile, conservazione delle foreste. L’obiettivo è di arrivare a generare 300 GW di energia dalle rinnovabili dai 56 GW attuali entro il 2030, il che richiederà di decuplicare gli investimenti fino a 600 miliardi di dollari. La stessa deforestazione selvaggia ha raggiunto in Africa i 3,9 milioni di ettari annui persi. Da un lato c’è l’espansione dell’agricoltura su micro-scala, dall’altro l’utilizzo diffusissimo del legname come combustibile, ma anche l’accaparramento di questa risorsa naturale da parte di compagnie sostenute da potenze straniere. Arrivando a Goma, nella provincia congolese del Nord Kivu regno di oltre 100 gruppi armati, molte, di recente, sono state le voci che abbiamo raccolto sull’ingente traffico illegale di legname da parte di società cinesi. In un territorio abbandonato a sé stesso dal governo centrale e distante oltre 2mila chilometri dalla capitale Kinshasa, la mera sopravvivenza resta l’unica possibilità per una popolazione che ha visto anche allungarsi in questi anni la stagione secca.

Alla fiera del carbon credit

L'adattamento al cambiamento climatico è in gran parte del continente nero un’enorme incognita. Un rapporto del Fondo internazionale delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo evidenzia che in otto Paesi africani i raccolti di prodotti alimentari essenziali in alcune aree potrebbero subire una diminuzione fino all’80 per cento entro il 2050, se le temperature continueranno a salire. La stessa agenzia Onu ha ammesso che bisognerà mobilitare 400 miliardi di dollari l’anno di investimenti da qui al 2030 per finanziare i sistemi agricoli alimentari nei Paesi fragili. Al summit di Nairobi è arrivato l’impegno degli Emirati Arabi Uniti di 4,5 miliardi di dollari di investimenti nell’energia pulita africana, ma un decimo di questi fondi saranno carbon credit. I crediti di carbonio sono certificati che le aziende acquistano per avere il “diritto” di emettere una tonnellata di anidride carbonica, in cambio di finanziamenti a progetti che tagliano emissioni. Di fatto, è un mercato in crescita a cui i governi africani guardano con estremo interesse, insieme ad altri strumenti finanziari, per ottenere in altro modo quei fondi che faticano ad arrivare dai Paesi donatori. Per molti esperti questo meccanismo resta, però, un’arma a doppio taglio per il pianeta, visto che concede ai Paesi ricchi di continuare a inquinare, anche se pagando. Gruppi ambientalisti come Greenpeace lo definiscono, al più, come una foglia di fico nella lotta al cambiamento climatico, una distrazione da una genuina riduzione delle emissioni. Le Ong, nel frattempo, continuano un paziente lavoro dal basso per sostenere le comunità. Nei mesi scorsi, nell’abbandonata regione della Karamojah, in un’Uganda che è già quasi Kenya, insieme ad Africa mission incontrammo un gruppo di donne sieropositive, quasi tutte vedove, che imparavano dai cooperanti l’irrigazione a goccia e altre tecniche di sopravvivenza agricola in un territorio sempre più inospitale e in cui non pioveva da ormai quattro mesi. “Siamo grate di essere state salvate: senza questi interventi saremmo tutte già morte», ci disse Apollot, 54 anni e 11 figli.

Per ora l’Occidente continua ad alzare barriere e di migranti climatici – saranno 216 milioni nel mondo entro il 2050 – non vuol sentire parlare. Molti Paesi africani, di converso, hanno già siglato documenti che contengono impegni concreti di accoglienza specificamente rivolti alle popolazioni in fuga da disastri naturali e cambiamento climatico. Poco prima che la pandemia di Covid “bloccasse” il mondo, a Dakar, in Senegal, partecipammo a un evento in cui si affrontava, tra l’altro, la questione dell’urbanizzazione nell’Africa sub-sahariana: ormai oltre il 40% degli africani abita nelle città, rispetto al 31% di due decenni fa, un dato che potrebbe raggiungere il 75% entro il 2050. Non solo: il 65% dei residenti vive negli slum, dove i precari sistemi fognari presentano problemi per la salute pubblica. L’area di Dakar passerà dagli oltre 2 milioni di abitanti attuali ai 7 milioni stimati nel 2040: l’incubo è quanto già avvenuto nel 2018 a Città del Capo, in Sudafrica, quando le precipitazioni si dimezzarono senza che la capacità del sistema di dighe crescesse allo stesso ritmo dell’aumento della popolazione. Il cambiamento climatico, anche in Africa, non riguarda insomma solo zone inaccessibili e territori lontani e inesplorati, ma è già qui, nelle sterminate metropoli popolate da un’umanità già piegata e senza molte opportunità. Un’umanità che, sempre più forte, chiede ora di essere accolta e ascoltata.

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