domenica 20 febbraio 2011
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Caro direttore,anch’io avrei tante cose da dire, sul governo, sul suo capo, sul suo partito e sull’atteggiamento della Chiesa italiana. Ma altri l’hanno già fatto e meglio di me. Mi colpiscono due atteggiamenti che compaiono nelle lettere dei lettori sul "caso Ruby". Il primo, è il rifiutare la realtà dei fatti ormai emersi. Non parlo delle due ipotesi di reato riferite al premier Berlusconi, su cui aspettiamo il giudizio dei tribunali. Ciò che comunque già sappiamo è abbastanza per una critica dell’operato di un uomo pubblico. Nessun giudizio "moralistico" sulla persona, ma denuncia di comportamenti inaccettabili sì. E allora direi di smetterla di usare il condizionale e di parlare anche noi cattolici di montatura mediatica. Anche il secondo atteggiamento, a mio giudizio, è poco cristiano. Si dice: quelli che in altri momenti hanno combattuto o irriso la morale cattolica, non hanno il diritto di fare la morale al premier... Ma dove sta scritto che se uno dice tre cose sbagliate, allora non potrà mai dirne una giusta? Cos’è questa distinzione manichea tra quelli che dicono solo cose giuste e quelli che, avendone dette di sbagliate, non possono dirne mai di giuste? Ma non ci ricordiamo che in ciascuno di noi crescono insieme grano e zizzania? E com’è che non si possono giudicare le opere del premier, ma si può sparare a zero su chi, almeno stavolta, esprime una valutazione morale che potremmo e dovremmo condividere?

Dino Vergombello, Milano

Non mi stupisce affatto, caro signor Vergombello, che ci siano persone che fanno fatica a prendere per oro colato le accuse, le sovrabbondanti rivelazioni e le sconvolgenti ricostruzioni riguardanti il cosiddetto “caso Ruby”. È solo uno dei risultati, certo eclatante, di quasi quattro lustri di conflitto permanente tra settori della magistratura e una parte importante del mondo politico, quella che dal 1994 è guidata da Silvio Berlusconi. Piaccia o non piaccia, tale condizione bellica – o se si preferisce questo procedere in una nebbia deformante e disorientante che rafforza opposte direzioni di marcia che non tengono quasi più conto dei riferimenti reali – è ormai radicata. Si è diffusa una cultura del sospetto e del “conflitto d’interesse”, del premier messo sotto accusa piuttosto che del magistrato imputato di ideologia. E questo rende difficile credere alla pulizia delle iniziative e degli atti legislativi di chi oggi governa (tutto è, o viene definito, “ad personam” o oggetto di poco commendevoli commerci), ma, dall’altro, induce a negare la linearità e la fondatezza delle azioni (o delle inazioni) dei pubblici ministeri e mette in questione persino la terzietà dei giudici (e qui non posso fare a meno di notare che l’inquietante e mirata continuità di talune “sentenze creative” certo non aiuta…). E per sovrappiù – e non smetterò di dolermi e di protestare per questo – porta anche a dubitare della possibilità che l’esercizio dei poteri di garanzia possa avvenire davvero in modo super partes (e il rischio è che questo esaurisca pericolosamente ogni possibile ammortizzatore dello scontro in atto). Si tratta di una situazione sempre meno sostenibile.Il fatto che tanti di noi usino ancora la prudenza del condizionale quando parlano di questioni scottanti o ricorrano alla formula “reati presunti” quando si riferiscono a vicende lontane dalla verità giudiziaria è, mi creda, l’ultimo dei problemi. Anzi, personalmente lo giudico un indice di benedetta e residua civiltà, non solo lessicale. Sogno, infatti, un Paese con i verbi a posto: nel quale si adopera come si deve il condizionale e di certe tristi vicende e di certe destabilizzanti battaglie dentro le stesse istituzioni si può parlare al passato remoto indicativo.Quanto alle “cose giuste” sul piano dei costumi e sulla mercificazione della donna che vengono finalmente dette da voci che magari ne hanno scandito sino a tre volte di più di sbagliate, io – come si sa o come dovrebbero aver capito quelli che hanno occhi per leggere – sono tra coloro che pensano sia bene prendere in parola chi le sta dicendo con una passione inedita che arriva all’indignazione. Credo insomma che bisogna adoperarsi seriamente perché il soprassalto di attenzione “morale”, variamente motivata, che si è prodotto in questi ultimi mesi non finisca in un mormorio risentito e risaputo sovrastato da polemiche di tutt’altra natura: le solite diatribe e i soliti furiosi quanto sterili “referendum” sul premier in carica. Mi ripeto: c’è in ballo qualcosa di davvero più importante di una leadership politica. E la nostra Chiesa, con grande lucidità e spirito di servizio al Vangelo e all’Italia, ha posto tale questione al centro della “sfida educativa” che ha deciso di accogliere formalmente e di rilanciare all’intera società (cosa che si fa parlando alla gente e stando tra la gente, non gridando con foga dall’alto di un campanile o di una torre). È il tema della trasmissione dei valori che danno senso alla vita di una comunità, spessore al concetto di cittadinanza e, prima ancora, inaggirabile rilevanza pubblica all’idea della non negoziabile dignità di ogni persona umana, donna e uomo, in ogni fase della sua esistenza e soprattutto quando è più piccolo, più debole, più manipolabile, più sfruttabile e comprabile. Qualcuno continua ad accusarci di «vitalismo», per questo. Noi non ce la prendiamo di certo. Tanti si stanno rendendo conto a quali mortificanti esiti conducano le opposte e pseudo-liberanti visioni che hanno tenuto banco ed egemonizzato slogan, stampa e tv negli anni che abbiamo alle nostre spalle. Ma non è tempo di recriminazioni. È tempo di guardare avanti, e di cambiare passo.
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