giovedì 1 marzo 2012
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Il presidente Napolitano è ancora una volta intervenuto ( Il Sole 24Ore, 21 febbraio, p.7 ) nel dibattito fra le parti sociali, invocando la necessità di un welfare diverso. Il welfare va cambiato – denuncia il presidente – perché quello attuale lascia scoperte ampie zone di povertà e di forte disagio sociale. È un appello che richiama la necessità di non limitarsi a interventi di emergenza o di manutenzione dell’esistente, e stimola a essere lungimiranti per correggere le carenze di fondo del sistema. Ed è opportuno perché la crisi attuale nasce proprio da squilibri di fondo sia del modello economico sia del welfare. Il primo ha prodotto diseguaglianze crescenti che hanno creato ingiustizie, sottratto risorse finanziarie e umane allo sviluppo e aggravato la debolezza del nostro tessuto economico. Il welfare tradizionale è rimasto anch’esso diseguale, troppo legato alle singole categorie produttive (e spesso alle corporazioni), chiuso ai giovani e poco attento a sviluppare investimenti di lungo termine in capitale umano e sociale. Non basta dire che dalla crisi non si esce solo con manovre di rigore. Non è sufficiente neppure puntellare l’attuale sistema di crescita squilibrata. Occorre cambiare strumenti e finalità dello sviluppo, correggendo gli squilibri nei processi di accumulazione e distribuzione della ricchezza e raccogliendo la sfida di un cambiamento di modello di sviluppo economico e sociale.

 

Questioni troppo trascurate dalla comune riflessione politica ed economica, e che sono invece svolte nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, così come dai teorici dello sviluppo umano (Amartya Sen, Stefano Zamagni). Solo così si può attivare un’economia ispirata alla crescita e all’equità, come si è impegnato a fare il Governo Monti. Le liberalizzazioni sono utili, ma non bastano se non si combatte l’impoverimento delle persone e non si riprende a investire sui pilastri di uno sviluppo, a partire dall’istruzione, dalla cultura, dalla ricerca, dai beni pubblici essenziali (l’ambiente, le energie alternative). Beni pubblici altrettanto importanti sono la legalità, la coesione sociale e la fiducia reciproca; tanto più necessari oggi per rassicurare le persone e per contrastare la tendenza drammaticamente accentuata dalla crisi alle divisioni sociali e all’opportunismo.

Questi sono i test decisivi per un welfare che voglia essere universale e non corporativo e che si basi su investimenti utili allo sviluppo umano integrale. A tal fine serve non il welfare state tradizionale, né il welfare delle corporazioni , ma un social investiment state, un welfare comunitario che certo investa risorse pubbliche, ma anche stimoli la partecipazione attiva della società civile al benessere collettivo. Si tratta di un cambiamento radicale di prospettiva che non si può realizzare da un giorno all’altro, ma che deve essere nella visione e nel cuore di chi ha responsabilità di governo: parti sociali ed esecutivo. Il fatto che l’esecutivo sia tecnico non lo esime dall’obbligo di agire in tale senso; anzi deve incoraggiare alla lungimiranza. La lungimiranza può subito dare frutti anche, riflettendosi in misure specifiche. I giovani sono quelli più colpiti dalla crisi, anzi dall’inerzia e dagli egoismi dell’ultimo decennio. A loro devono dirigersi i pieni segnali di un cambiamento di visione, investendo le risorse necessarie. I risparmi derivanti dalla riforma pensionistica possono in parte essere destinati ai figli degli attuali pensionandi. Un welfare universale non può che cominciare da loro, concentrando le risorse sui gruppi più a rischio: i drop out e i giovani con formazione debole, esposti alle trappole del precariato.

Altri Paesi forniscono buoni esempi di interventi a favore di questi gruppi; non un’assistenza generica, ma programmi comprensivi: formazione, orientamento, apprendistato e servizi di qualificazione, con il concorso di agenzie pubbliche e private. Un welfare attivo deve stimolare le capacità di innovazione e di autonomia dei giovani: incentivi e prestiti per iniziative individuali, stage e borse di studio, lavoro all’estero, essenziali per rafforzare le capacità linguistiche e per far vedere da vicino ai giovani la globalizzazione. Così il welfare può cominciare a essere strumento di nuovo sviluppo umano integrale, secondo l’espressione di Benedetto XVI, e permettere alle risorse attive del Paese di avere più voce nella determinazione dei destini comuni. Questo nuovo welfare può essere esso stesso una via per uscire dalla crisi non solo dell’economia, ma anche della democrazia politica, la quale ha bisogno di nuove forme di democrazia maggiormente radicate nella vita economica e sociale (ci permettiamo di rinviare a un nostro saggio, Organizzare l’altruismo. Globalizzazione e welfare , Laterza). Questa, né più né meno, è la posta in gioco nelle vicende del governo tecnico e anche nelle trattative in corso fra governo e parti sociali, se non vogliono sminuire il loro ruolo.

(Gli autori sono rispettivamente Ordinario di Filosofia della Scienza all’Università di Bergamo, Senatore del Pd e Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università Cattolica di Milano, Senatore del Pd)

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