Seppellire e onorare i defunti è parte di ciò che ci fa umani
sabato 21 marzo 2020

Nel tempo del Covid-19 i funerali sono vietati, anche questo ci insegna quel microscopico ospite indesiderato: che accompagnare il caro defunto è un rito necessario per chi se n’è andato e per chi resta. Sotterrare i morti è prerogativa dell’uomo – al cimitero degli elefanti, secondo il mito narrato nel settimo viaggio di Sinbad il marinaio inserito nella raccolta “Le Mille e Una Notte”, sono gli stessi elefanti adulti che raggiungono il cimitero prima di morire. Gli esseri umani non lasciano i loro morti abbandonati alle intemperie o, preda degli animali, ma li collocano in luoghi appartati, ne ricompongono il cadavere, li onorano.

Le modalita del rito funebre cambiano in relazione alla civiltà di appartenenza. E da sempre è l’istituzione religiosa che si occupa di accompagnare i defunti. È significativo – lo annoto da “non telogo”, senza altre e più profonde considerazioni – che nel Credo, la professione di fede cristiana, si ricordi che Gesù «morì e fu sepolto» (cf. 1Cor 15,3-4), dove questa seconda parte non indica solo un evento puntuale, conseguenza della morte, ma anche una precisa azione compiuta da alcuni discepoli di Gesù (cf. Mc 15,46-47 e par.; Gv 19,40-42): egli non solo raggiunse la terra, nell’antro di una grotta, ma «fu sepolto».

I Vangeli attestano che anche Giovanni il Battista, una volta decapitato, fu posto in un sepolcro dai suoi discepoli (cf. Mc 6,29; Mt 14,12). L’origine di questa mia riflessione e stata la morte improvvisa di un amico bergamasco a me molto caro, Marco Crevena. Persona meravigliosa, con cui abbiamo condiviso una parte significativa della vita, un professionista serio, un uomo gentile, leale, mosso da princìpi etici encomiabili, dedito al dono, avverso allo scambio.

Quando sua moglie mi ha chiamato per darmi, straziata, la triste notizia mi ha anche raccomandato di non provare a raggiungere Bergamo, ricordandomi l’impossibilità di organizzare un funerale per le restrizioni dovute alla pandemia. Solo allora ho riflettuto sull’importanza del rito funebre, per noi che amavamo Marco. Tra alcuni amici – ne era circondato – ci siamo sentiti l’intera notte, tutti col desiderio di parlare di lui, ognuno con una storia da raccontare, dall’ultima volta che lo abbiamo incontrato e a ritroso fino alla prima. Abbiamo pianto molto, in solitudine o insieme col cellulare appoggiato alla guancia umida.

Quante cose ci sta insegnando questo microscopico ospite indesiderato e inatteso. Ne avevamo bisogno? Spero soltanto che tutti questi insegnamenti lascino tracce, ferite capaci di generare perle preziose da conservare nello scrigno della nostra coscienza.

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