«Separato e isolato da tutta la comunità» Il coraggio di chiedere e dare aiuto
venerdì 15 dicembre 2017

Caro Avvenire,
è il secondo Natale che passerò da separato. Separato da una moglie e tre splendidi figli e questo è un grandissimo dolore. Ma un altro dolore me lo ha dato la nostra comunità. Mia moglie e io eravamo catechisti in parrocchia entrambi. In un’altra parrocchia frequentavamo l’oratorio, nonché un gruppo famiglie in un’altra parrocchia ancora. Ebbene, nessuna delle catechiste e dei catechisti mi ha cercato, contattato, avvicinato. Nessuno del gruppo famiglie mi ha fatto una telefonata, neanche per chiedere come stavo. Nessuno dei sacerdoti della prima parrocchia né dell’altra mi ha fatto un gesto di carità, né dato una parola di conforto. Nessuno dei sacerdoti dell’oratorio. Così come nessuna delle famiglie dei ragazzi, si è scomodata per sentire come andavano le cose. Insomma una famiglia dopo 25 anni di matrimonio si sfascia e non interessa niente a nessuno. Questo è il motivo della mia lettera. Tante parole sulla famiglia, la sacralità della famiglia, la famiglia al centro della comunità... Tante catechesi sull’amore sponsale. Tanti begli insegnamenti sull’educazione dei figli all’interno della famiglia. Poi nessuno soccorre le famiglie in crisi. Nessuno si avvicina. Mi sono sentito davvero solo. Tutto liquido. Finché tutto va bene, tanti sorrisi, facciamo le cerimonie, allestiamo i mercatini parrocchiali, prepariamo i bambini a ricevere la prima Comunione, festeggiamo il compleanno del parroco o l’ordinazione del nuovo diacono. Un momento di crisi e non ti trovi nessuno al fianco. La crisi va avanti e tutti scompaiono. Arriva il momento doloroso della separazione ed è sempre peggio. Nessuno sa cosa dire, nessuno è preparato ad affrontare un disagio, nessuno sa quali parole utilizzare in questi casi. Che delusione. Che sconforto. Questa è la Chiesa in cui sono cresciuto, sono stato formato e poi ho formato piccoli, giovani e coppie nella catechesi prematrimoniale? Un augurio di un Santo Natale.

Lettera firmata

Venticinque anni di matrimonio e tre figli quasi adulti: quando una famiglia sembra ormai solida, una gran nave prossima all’approdo. E invece all’improvviso tutto cede e rovina, e appare insanabile ciò che pareva un contrasto da poco, appare insostenibile rimanere sotto allo stesso tetto: mentre i figli assistono sbalorditi e impotenti, sentendo franare la terra su cui sono cresciuti. Sembra impossibile, ma si va dall’avvocato, e veramente ci si divide. E, attorno? Il lettore racconta di una famiglia molto coinvolta in catechesi, oratori, gruppi parrocchiali. Eppure, nessuno che si faccia avanti a dire una parola, nessuno che condivida tanto dolore. È un giudizio negativo, è una condanna morale? Forse – ed è paradossale doversi augurare che sia così – è soprattutto un non saper cosa dire, un forte imbarazzo. Di coppie che si dividono ce ne sono sempre di più, purtroppo, ma che questo accada anche fra cattolici praticanti e “militanti”, fra catechisti che da una vita insegnano ai giovani cos’è il matrimonio, lascia chi è attorno senza parole. Quasi che il senso di fallimento riguardasse non solo quella casa, ma anche coloro che la circondano. E allora si resta zitti, come quando da bambini una squadra molto amata riporta una sconfitta cocente in una partita importante. Si resta zitti, forse, semplicemente perché quella separazione porta con sé uno smarrimento corale. A. e B,, possibile, davvero, anche loro? Manca il coraggio di alzare il telefono, come quando si sa di un lutto cocente. Ma, certo, questa reazione istintiva è profondamente sbagliata. È proprio ora, nel momento del dolore, che occorre dimostrare che il bene di cui parliamo è vero. È ora, nei mesi di solitudine che seguono una separazione, che c’è bisogno di volti e voci intorno a confortarci. Chi scrive è passata, da bambina, per questi frangenti, e ricorda bene il silenzio, attorno, il parlar d’altro o l’allontanarsi imbarazzato di conoscenti e amici. Un dolore in più: oltre alla divisione in famiglia, il sospettare che nemmeno gli amici fossero veri. Dai sacerdoti, poi, questo silenzio è inescusabile. Proprio ora occorre disperatamente un padre, e un fratello, che conforti e abbracci. Che affronti quel dubbio che rode: ma allora, le nostre erano solo belle parole? No. Il lettore che ha fatto il catechista con le giovani coppie ha insegnato cose belle e vere. Solo che poi siamo uomini e donne, e sbagliamo, talvolta anche senza volerlo, senza accorgercene. Impercettibilmente ci allontaniamo dai nostri ideali. Ricordiamoci però che Cristo non è un ideale, è una persona, e viva. Lui non rinnega mai, neanche se abbiamo sbagliato; lui è più vicino agli abbandonati, e a chi è solo, a chi è ferito e anche a chi ha ferito e si rende conto di averlo fatto. Certo, occorrono volti di uomini e donne, che ci testimonino questo bene. Ma bisogna anche avere il coraggio di domandare aiuto, apertamente, distogliendo chi ci è vicino da imbarazzi e pudori. Lo domandi esplicitamente, caro lettore, quell’affetto che le manca dalla comunità cristiana. Non posso credere che nessuno risponderà. Così che i suoi ragazzi vedranno attorno a sé gli amici che li hanno cresciuti, dentro a un bene certo e forte, nonostante la divisione dei genitori. Che non è l’ultima parola sulla vita loro, e nemmeno vostra; e meno che mai è ragione di condanna dalla comunità attorno. Se mai di condivisione di un doloroso umano fallimento. Perché sempre di più i cristiani nel nostro tempo, ci insegna il Papa, sono chiamati a chinarsi su chi cade, su chi resta indietro e solo. A essere testimoni non di una severa astratta legge, ma di viva e concreta misericordia. Misericordia significa “con viscere materne”. Siamo chiamati a guardare all’altro con la tenerezza, con cui guarderemmo a un figlio.

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