mercoledì 8 giugno 2011
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Nell’incontro tra i principali dirigenti del centrodestra dedicato all’esame della sconfitta elettorale e alla definizione degli obiettivi da realizzare nella parte conclusiva della legislatura, il grande tema della riforma fiscale è stato ovviamente affrontato. Ma, a quanto si è capito, senza alcuna decisione conclusiva. È quasi meglio così. Annunciare ancora una volta, e semplicemente, una mera volontà politica di riduzione del peso fiscale, senza definirne in modo preciso contorni e compatibilità, non avrebbe dato un segnale di svolta agli italiani e avrebbe potuto accendere la speculazione sui titoli del debito pubblico, provocando immediati effetti negativi, senza produrre quelli positivi attesi. Se questo è vero, è però altrettanto vero che un tema così importante – che rappresenta il cardine del rapporto tra i cittadini contribuenti e lo Stato, nonché un punto chiave del programma di governo presentato a suo tempo ai cittadini – non può essere trattato come un artificio elettoralistico, da rispolverare solo quando si sarà in vista della prossima chiamata alla urne. È un obiettivo che richiede ponderazione e costruzione del necessario consenso interno e internazionale.Solo il fatto che si sia parlato di una riduzione del carico fiscale ha indotto la Commissione europea a emettere un comunicato in cui si invita l’Italia a impiegare ogni eventuale miglioramento imprevisto del bilancio esclusivamente per abbattere il debito pubblico. Di questi vincoli e delle possibili reazioni dei mercati, ovviamente, bisogna tener conto, visto che ogni punto in più di interesse dei titoli del debito pubblico costa 20 miliardi. Se la strada è stretta, com’è di fatto, bisogna scegliere con precisione qual è il percorso da intraprendere già nel prossimo autunno, definire cioè le priorità. Sono importanti i problemi delle imprese e del lavoro, e perciò è probabilmente utile realizzare una fiscalità di vantaggio per attenuare le distanze di crescita tra le diverse parti del Paese, ma questo si può fare con spostamenti dagli incentivi settoriali a riduzioni universali dell’imposizione e con un utilizzo appropriato dei fondi europei per le aree meno sviluppate.La priorità che invece va affermata è quella della rilevanza strategica della famiglia, con il riconoscimento di un "fattore familiare" che renda meno oneroso creare nuovi focolari, procreare nuove vite, contrastare la decadenza (non solo) demografica del Paese. Se è vero che non ci si può permettere di finanziare riduzioni fiscali con aumenti del deficit, è altrettanto vero che nell’immenso aggregato della spesa pubblica centrale e decentrata ci sono partite sicuramente meno essenziali del sostegno alla famiglia, anche sul terreno fiscale. Nel colossale patrimonio pubblico, spesso mal gestito e poco redditizio, ci sono beni che possono essere alienati o messi a reddito senza che questo determini sofferenze sociali o depauperamenti culturali. Bisogna scegliere, sapendo che se nessuna scelta responsabile è indolore e che il principio di priorità non è assimilabile alla finanza allegra (che gli esempi di altri Paesi, dalla Grecia al Portogallo, sconsigliano vivamente).Ciò che è necessario è un discorso di verità, fatto anche di aspetti sgradevoli. D’altra parte un incremento dei redditi familiari reali, conseguente a un’operazione fiscale di alleggerimento, potrebbe avere l’effetto di rianimare la domanda interna, che resta bloccata o addirittura declinante mentre quella estera comincia a mostrare segni consistenti di ripresa. In questo modo si darebbe un serio contributo alla crescita, che resta il problema principale dell’economia nazionale.Riflettere su queste esigenze e sulle difficoltà oggettive della situazione è indispensabile, dovrebbe animare un confronto non pregiudiziale tra le forze politiche e le rappresentanze sociali, in modo da arrivare a soluzioni quanto più possibile condivise e che non abbiano – tra qualche mese di troppo – il sapore asprigno e poco convincente dell’espediente propagandistico.
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