Smartphone e analfabetismo dell’anima
martedì 31 dicembre 2019

«Il telefonino riduce la comunicazione a semplici contatti. Ma la vita non è per 'contattarsi', la vita è per comunicare». E ancora: «Il cellulare è un grande progresso, è bello che tutti sappiano usarlo, ma quando tu ne diventerai schiavo perderai la tua libertà»... Già in passato e in più occasioni papa Francesco, certamente il pontefice più 'digitale' della storia, ha messo in guardia dall’abuso del cellulare, splendido mezzo di comunicazione e di navigazione nel cosmo dei saperi, ma spesso anche vera e propria droga, che come tale può dare dipendenza. Un accorato appello era stato lanciato la scorsa primavera, quando Francesco rivolto ai liceali del classico 'Visconti' di Roma li aveva esortati a riscoprire la bellezza del silenzio: «Non abbiate paura del silenzio, di stare soli, di scrivere un vostro diario», aveva meditato insieme a loro, «il silenzio può annoiare, ma andando avanti non annoia più. Liberatevi dalla dipendenza dal telefonino, per favore!».

Perché c’è un rumore di fondo, oggi, e sembra che non se ne possa fare a meno: nei negozi o nei ristoranti, nelle stazioni o sulle spiagge, «esiste la dipendenza dal chiasso, se non c’è chiasso non mi sento bene... Ma la dipendenza dal telefonino è molto sottile, può diventare una droga». Ancora prima, nel novembre di due anni fa, aveva bacchettato i fedeli in piazza San Pietro, troppo concentrati a inquadrarlo e postarlo sui social.

«Quando il sacerdote a Messa dice 'in alto i nostri cuori', non dice 'in alto i nostri telefonini per prendere la fotografia', no, è una cosa brutta», aveva esclamato, «a me dà tanta tristezza quando celebro qui in piazza o in basilica e vedo tanti telefonini alzati... non solo fedeli, ma anche preti, anche vescovi. Ma per favore!» All’Angelus di domenica scorsa, però, la festa liturgica dedicata alla Sacra Famiglia è stata l’occasione per ritornare con più forza su un tema che ormai preoccupa anche il mondo scientifico e gli esperti dell’età evolutiva: «Gesù, Giuseppe, Maria si aiutavano reciprocamente a scoprire il progetto di Dio. Loro pregavano, lavoravano, comunicavano ». Da qui, impietoso, il paragone con molte nostre famiglie.

E un tu rivolto a ciascuno di noi: «Tu, nella tua famiglia, sai comunicare o sei come quei ragazzi a tavola, ognuno con il suo telefonino, mentre stanno chattando? ». Non è il silenzio fecondo consigliato agli studenti del liceo romano, «in quella tavola non comunicano tra di loro». Nell’illusione di vivere 'connessi' con il mondo intero, ci abituiamo a tacere con chi ci siede di fronte, nemmeno lo vediamo più. Non è un’iperbole, è una realtà con cui stiamo già facendo i conti. E non solo per l’insorgenza di vere e proprie patologie denunciate dagli psicoterapeuti, che rilevano la crescente compromissione di alcune attività cognitive e ancor più delle emozioni, l’empatia in primo luogo, ma per la non meno tragica rinuncia ai rapporti umani: dobbiamo riprendere il dialogo in famiglia, ha chiesto il Papa, tutti, «padri, genitori, figli, nonni e fratelli», e non da domani, «questo è un compito da fare oggi ».

A cominciare dagli adulti. Quante coppie nascondono dietro un touchscreen i propri silenzi interiori? Quanti figli nei ristoranti vengono acquietati con un telefonino, purché stiano zitti e non chiedano di giocare? Che scherzi fa il progresso. Se anni fa ci avessero detto che i nostri bambini a Natale non ci avrebbero più chiesto giocattoli ma telefoni, non avremmo compreso. A ben guardare, qual è l’attrattiva reale? Che cosa ci affascina? Non il comunicare con l’altro ma con noi stessi, con quell’io da 'postare' e sottoporre all’altrui consenso, e guai se questo non arriva: la nostra gratificazione si pasce di 'contatti' (followers) e adesioni (like), più ne abbiamo e più il chiasso interiore ci stordisce come un’overdose, illudendoci di essere immersi in una folla mentre siamo estremamente soli.

Quando da strumento per aprirci al prossimo il cellulare si trasforma in una sorta di buco nero dentro il quale precipita il mondo a noi esterno, risucchiato senza lasciare traccia; quando diventa lo specchio di Narciso, nel quale non ci interessa vederci per come siamo, ma millantare un simulacro di come vorremmo essere, è allora che abbiamo perso noi stessi. Per questo il Papa che sta al passo con i tempi, il Papa che per primo è sbarcato su Instragram (proprio il giorno di san Giuseppe di tre anni fa), il Papa che sorride nei display dei giovani quando si scattano un selfie insieme a lui (i primi furono alcuni scout dell’oratorio di Fiorenzuola nell’agosto del 2013 e fecero notizia), non ci chiede anacronistiche rinunce, ma di non regredire all’analfabetismo dell’anima.

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