martedì 30 novembre 2010
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Cui prodest? Di fronte alla deflagrazione delle rivelazioni di Wikileaks non è la prima domanda da porsi, per non venire catturati da deformazioni dietrologiche. Forse non giova a nessuno, paradossalmente nemmeno al sito divenuto improvvisamente famosissimo, ma ora a forte rischio nel proseguire la sua attività, né al suo fondatore, Julian Assange, investito da sospetti (e anche da un’inchiesta) numerosi almeno quanto le lodi ricevute. Nessuna ingenuità rispetto alle zone oscure che avvolgono il "collettore di notizie via Internet" (e non testata giornalistica) in questione. Ma risulta più utile capire le dinamiche all’opera e gli scenari possibili. Vi può essere una spiegazione lineare del motivo per cui la diplomazia americana si trova oggi nuda e in gravissimo imbarazzo, mentre decine di altri governi e cancellerie cercano di minimizzare il contenuto di dispacci che riportano giudizi destinati a rimanere riservati redatti da funzionari statunitensi. Un whistleblower nella più schietta tradizione anglosassone (forse da identificare nel soldato Bradley Manning, mago del computer, ora in carcere), magari con un po’ di esaltazione e di zelo in eccesso, riesce ad accedere al sistema centrale dei files riservati dell’Amministrazione. Scopre episodi di "guerra sporca" in Iraq e Afghanistan, decide di fare emergere tali vicende, impacchetta il tutto – un numero enorme di documenti in formato elettronico – e li manda a Wikileaks, che è nato proprio per raccogliere "fughe di notizie" e diffonderle a livello mondiale. Prima esce il video di un elicottero militare che fa fuoco su alcuni civili, poi la valanga di documenti sui conflitti in Asia. Infine, la pioggia acida delle schede sui leader e su alcuni retroscena della politica mondiale. Un whistleblower è colui che denuncia un’irregolarità di cui è venuto a conoscenza, sul modello del poliziotto d’antan che fischiava quando vedeva commettere un reato. Come Sherron Watkins, che denunciò dall’interno le frodi del grande crac Enron. Se si tratta di un’impresa privata e di notizie di comprovata utilità sociale, le remore nel diffonderle sono limitate e il plauso è quasi unanime. Nel caso di uno Stato sovrano, di sicurezza nazionale, di rapporti tra nazioni, senza che vi siano palesi e clamorose ingiustizie da smascherare, la situazione cambia però radicalmente. Le obiezioni alla prima ondata di documenti bellici potevano essere superate con l’appello alla trasparenza che si deve all’opinione pubblica, agli elettorati, nel cui nome si è intervenuti a Baghdad e a Kabul, fatta salva l’incolumità delle persone citate. Di fronte ai profili compilati dalle ambasciate e ai (per ora) pochi elementi di fatto messi liberamente sul Web il vantaggio pare inferiore ai danni. Un peso rilevante ha la tecnologia bifronte. Da un lato favorisce la comunicazione e agevola le procedure, dall’altro provoca effetti di leva che moltiplicano le conseguenze di ogni atto informativo. Con dossier cartacei, anche un’intera squadra di funzionari "giustizieri" (o "infedeli", secondo i punti di vista) avrebbe potuto al massimo fotocopiare qualche centinaio di pagine. Attualmente, una singola smagliatura può comportare effetti catastrofici. In questo quadro di potenza crescente dei media, anche la responsabilità degli operatori deve essere aumentata in modo corrispondente. È vero che i grandi giornali cui Assange si è appoggiato per vagliare i files hanno operato una certa selezione cautelativa, coinvolgendo lo stesso Dipartimento di Stato nell’espungere dati sensibili. Eppure, non hanno poi esitato a mettere nel ventilatore tutto quello di cui disponevano. Trasparenza, si dice. Ma a quale prezzo. L’Amministrazione Obama ferita pesantemente nell’immagine proprio quando cercava una nuova strategia, legata al soft power della persuasione. Gli alleati in difficoltà per gli impietosi ritratti; alcuni quadranti geopolitici resi più intricati dallo svelamento di progetti e intenzioni ancora sulla carta (con qualche notevole eccezione, quale lo spionaggio americano all’Onu). Al di là dell’uso politico strumentale e delle valutazioni incongrue cui nessuno in Italia si è sottratto, il fluire di rivelazioni dovrà fare riflettere sugli strumenti di tutela della riservatezza da una parte e sui limiti della divulgazione di elementi segreti dall’altra. Anche senza evocare il terrorismo, il mondo del XXI secolo appeso al Web affronta pericoli subdoli, sebbene non inediti. Nel 1917 il marinaio bolscevico Nikolai Markin, insediato al ministero degli Esteri russo dopo la Rivoluzione, pubblicò gli archivi della diplomazia zarista, compresi i patti segreti con le potenze dell’epoca. Prima e peggio di Wikileaks.
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