sabato 31 gennaio 2009
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Spiace rilevare come all’indubbia sapienza giuri­dica dei nostri magistrati non si unisca una pa­rimenti adeguata sapienza bioetica. Nel solenne e tradizionale discorso tenuto in occasione dell’inau­gurazione dell’anno giudiziario il presidente della Corte di Cassazione Vincenzo Carbone ha tessuto un elogio della ormai fin troppo citata sentenza del­la Cassazione sul 'Caso Englaro', rimarcando come i giudici abbiano definitivamente consolidato il ri­conoscimento dell’autodeterminazione terapeutica come diritto assoluto della persona. Probabilmente, da Carbone, nel suo ruolo di presi­dente, era difficile a questo punto aspettarsi un di­scorso di tipo diverso. Ma onestà vuole che si dica che in tal modo, anziché contribuire ad una chiari­ficazione delle idee (quanto mai necessaria in que­sti tempi!), egli ha invece favorito quella confusio­ne tra politica e bioetica, che andrebbe accurata­mente evitata, pena il consolidarsi di quel perico­losissimo paradigma 'biopolitico', che da tempo sta suscitando dubbi, preoccupazioni e angosce nei bioeticisti. Se infatti è vero che l’autodeterminazione è un va­lore 'politico' fondamentale, non è altrettanto vero che sia un valore 'bioetico' dotato di pari valore. Nell’esperienza politica, nella quale entrano in gio­co, si confrontano e si scontrano interessi sociali, e­conomici, culturali, ideologici, l’autodeterminazio­ne è un principio di riferimento liberal-democrati­co di primario rilievo, che va tutelato e promosso at­traverso un serio impegno individuale e collettivo: un mancato o anche un carente riconoscimento del­l’autodeterminazione non può infatti che aprire la strada a pratiche sociali autoritarie. Quando passiamo però dal­l’orizzonte politico all’oriz­zonte bioetico, quando cioè il 'protagonista' della vicenda non è l’essere umano come at­tore sociale, ma l’essere uma­no come 'paziente', il discor­so muta profondamente. Il ri­spetto profondo e sincero che dobbiamo all’autodetermina­zione del malato, quel rispet­to che ci induce a ritenere or­mai definitivamente superata ogni forma di 'paternalismo medico', non può non coniugarsi con la consapevolezza che il paziente, o­gni paziente è un soggetto psicologicamente e isti­tuzionalmente debole, fragile, suggestionabile, bi­sognoso di particolarissime forme di tutela e che l’e­saltazione del suo diritto all’autodeterminazione non può che rivelarsi quasi sempre come una for­mula vuota. Il principio ippocratico della tutela del­la vita non può essere confuso, come ha fatto la Cas­sazione, imprudentemente lodata da Carbone, con una 'opzione di valore e di cultura' (opzione, come tutte le opzioni, essenzialmente soggettiva e relati­vistica): esso è piuttosto da intendere come un do­vere giuridico fondamentale, che grava sulla società in generale e sui medici in particolare. La scienza giuridica, nel suo lavoro plurisecolare, ha interpretato la prospettiva ippocratica elabo­rando la formula, assolutamente precisa, dell’'in­disponibilità della vita': desta meraviglia che il pre­sidente della Cassazione non abbia citato e nem­meno ricordato tale formula. Nel contesto del dirit­to fondamentale alla salute, il cui rilievo costituzio­nale è fuori discussione, esiste come diritto fonda­mentale della persona non quello di autodetermi­narsi, ma quello di non essere sottoposto a terapie obbligatorie e coercitive: questo e non altro stabili­sce il secondo comma dell’art. 32 della nostra Co­stituzione. Trasformando il diritto (negativo) di o­gni paziente a non essere sottoposto a terapie coer­citive nel diritto positivo all’autodeterminazione, la magistratura italiana ha lavorato su di un’immagi­ne fittizia del malato e ha nello stesso tempo umi­liato l’immagine dei medici, riducendoli da prota­gonisti dell’alleanza terapeutica al ruolo di passivi operatori di una sovrana volontà del paziente, spes­so purtroppo ipotizzata, piuttosto che dimostrata al di là di ogni dubbio. Non deve destare quindi alcuna meraviglia che il Parlamento, in implicita polemica con recenti deci­sioni giurisprudenziali, si sia alla fine impegnato nel­l’elaborazione di una legge sulla fine della vita u­mana. Le fughe in avanti della Cassazione hanno e­roso la nostra fiducia nella capacità dei magistrati di saper elaborare indicazioni biogiuridiche sagge e soprattutto prudenti, come è indispensabile che si faccia, quando si trattano situazioni estreme e tra­gicamente controverse. Auguriamoci che il Parlamento legiferi nella consa­pevolezza che quando è in gioco la vita umana il principio di precauzione ha un’assoluta priorità, an­che e soprattutto nei confronti del pur nobile prin­cipio di autodeterminazione.
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