mercoledì 4 novembre 2020
Hanno invaso le piazze e inneggiato alla rivoluzione, si ritrovano catalogati tra i «fragili» e «non produttivi»
Manifestazioni nella stagione sessantottina

Manifestazioni nella stagione sessantottina - /

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Sono del 1950, e ora hanno settant’anni. Sono quelli che si è ipotizzato di “rinchiudere” per proteggerli dal Covid, o, più bruscamente, perché «non indispensabili alla funzione produttiva », come qualcuno ha scritto. I nati nel ‘50 avevano diciotto anni nel ‘68, sono la generazione che – nel bene e anche nel male – ha cambiato faccia all’Occidente. Nel fare questo conto ho provato una stretta al cuore. Perché quei ragazzi io me li ricordo bene. Li guardavo, bambina, da lontano, nelle manifestazioni: tumultuosi come un torrente in piena sotto a uno sventolio di bandiere rosse. Ho stampato nella memoria quel ribollire nelle strade di Milano, e io che andavo ancora alle elementari, e poi alle medie col grembiule nero – disciplinata, ubbidiente – ingenuamente li consideravo un po’ eroi: coraggiosi tanto da sfidare i professori, i genitori, tutto ciò che per me era l’autorità indiscussa degli adulti.

Manifestazioni nella stagione sessantottina

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Accanto a casa mia c’era allora il Consolato degli Stati Uniti. Erano gli anni della guerra del Vietnam. Affacciata al balcone guardavo con sbalordimento le oceaniche manifestazioni che andavano a infrangersi contro i cordoni della polizia, in piazza della Repubblica. Quanti erano, e quanto arrabbiati, e che duri slogan urlavano: “Pagherete caro, pagherete tutto...”. Tutto cosa?, mi chiedevo. E osservavo gli agenti in assetto antisommossa, anche loro giovanissimi, che partivano nelle cariche: e che botte con gli sfollagente mentre i sassi volavano, e poi i fumogeni offuscavano la scena e il fumo arrivava, acre, al mio balcone. Una guerra sotto casa. “Pagherete tutto”. Rientravo in soggiorno, fra i tappeti e la Treccani sugli scaffali della libreria, e confusamente mi pareva che quei là fuori ce l’avessero proprio con le nostre case borghesi e con le nostre famiglie, in cui i figli ancora ubbidivano.


Quanti erano, e quanto arrabbiati, e che minacciosi slogan urlavano: “Pagherete caro, pagherete tutto...” Tutto, cosa? mi chiedevo. E osservavo gli agenti in assetto antisommossa, anche loro giovanissimi, che partivano nelle cariche: e che botte con gli sfollagenti mentre i sassi volavano, e poi i fumogeni offuscavano la scena e il fumo arrivava, acre, al mio balcone Marciavano accanto ai compagni, il pugno teso, uguali, e mi meravigliava: eravamo cresciuti separati in classi maschili e femminili

Quei ragazzi che ci ribaltavano a cominciare dall’aspetto, dal vestire. Le adolescenti che un anno prima portavano le gonne scozzesi e i capelli raccolti ora erano in jeans o in minigonna, le lunghe chiome sciolte come il simbolo di una nuova libertà. Marciavano accanto ai compagni, il pugno alzato, uguali, e questo mi meravigliava: eravamo cresciuti separati in classi maschili e femminili, e a noi bambine nell’ora di applicazione tecnica insegnavano a ricamare; e c’erano “cose da maschi” e “cose da femmine”, ri- gorosamente distinte. Le maree di ragazzi nei cortei contestavano anche questo. E quelle barbe lunghe, le chiome indomate, le voci provocatorie all’indirizzo degli adulti che al loro passaggio si rifugiavano nei portoni mi parevano una mareggiata di ribellione e giovinezza. Mi pareva che i ragazzi del ‘68 sarebbero rimasti giovani per sempre. E benché appena pochi anni dopo, al ginnasio, ne avrei visto anche la capacità di violenza e prepotenza, la rigida e inconfutabile ideologia, e a volte anche il fare i “compagni” per moda, tuttavia ammiravo certe assemblee infinite, certe notti in cui fino a tardi stavano a ciclostilare


Sul filo della memoria e del paradosso, la generazione dei giovani per sempre convinta di non diventare mai 'Matusa' ora scopre che qualcuno la vede inutile

Animosi volantini. mmiravo una passione politica che personalmente non capivo, e invidiavo quasi quel loro stringersi in corteo, reggendo striscioni vergati a grandi battagliere parole, e l’incolonnarsi vocianti verso il centro. E di nuovo i poliziotti con il casco e gli scudi, sassaiole, fumogeni, in un’eco lacerante di sirene. Molti dei ragazzi nati nel 1950, o poco prima o dopo, inondarono Milano e tante altre città occidentali con la furia di una tempesta. Anni dopo qualcuno sarebbe diventato un terrorista, e avrebbe sparato e ucciso. Molti altri no, alcuni avrebbero cambiato occhi e, a volte, seguito il cuore e ritrovato l’anima. Ma negli albori degli anni Settanta io ragazzina non lo sapevo, e non capivo altro, se non che quella moltitudine esplosiva non avrebbe lasciato il mondo come prima. E che noi, le “femmine”, non saremmo tornate a ricamare e a portare le gonne scozzesi.


I ragazzi del 1950, non tutti certo, ma una parte di loro, quanto erano, nel bene e anche nel male, intensamente giovani: convinti di cambiare tutto, utopisti e incontenibili. Per me bambina, giovani per sempre: “ Forever young”, come in quella struggente canzone di Bob Dylan. Ora si ipotizza di chiuderli, perché «fragili», o forse perché ritenuti «inutili», in casa. Con sbalordimento rivedo in una moviola interiore Milano tumultuosa di cortei e slogan: voi, proprio voi, ora siete i vecchi da mettere da parte? Ma che crepa nel cuore a immaginare i miei fratelli grandi, scapigliati, insolenti, e le mie sorelle maggiori con le chiome sciolte, fiere, ora passibili di essere messi da parte, messi via. Per il loro «bene», il loro «migliore interesse ». O perché i più giovani siano liberi di vivere, senza il peso di uomini e donne con i capelli bianchi. (”Matusa”, da Matusalemme, così i sessantottini chiamavano i nonni. Nell’eterna ricorrente illusione che loro, vecchi, non sarebbero stati mai).

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