martedì 5 dicembre 2017
La diffusione del mondo digitale e della sua poderosa strumentazione, affascinante e in continuo progresso, è così invasiva nei giovani da occupare il loro interesse e il loro tempo al punto
Perché dico «no» all’uso dello smartphone in classe
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La diffusione del mondo digitale e della sua poderosa strumentazione, affascinante e in continuo progresso, è così invasiva nei giovani da occupare il loro interesse e il loro tempo al punto da distrarli dall’educazione scolastica tradizionale e da fare spazio al dibattito sullo 'smartphone al scuola' (che su queste colonne ha già visto l’intervento del professor Roberto Carnero e del dottor Carlo Bellieni, ndr). Ciò pone il problema delle ragioni che ne stanno alla base e, come direbbe un medico, della eziologia, della diagnosi e delle possibili indicazioni terapeutiche. Perché il giovane è così attratto dal suo smartphone o similia? La mia risposta è che l’interesse di tutti e particolarmente dei più giovani per le diavolerie del mondo digitale, dipende dal loro apparire come un gioco, un gioco nuovo, divertente che rappresenta il futuro e che è percepito come vincente su un’istruzione forse datata e giudicata non al passo con la velocità e le necessità dei tempi moderni.

Montaigne scriveva che il giovane non è un vaso da riempire (di nozioni) ma un fuoco da accendere, di entusiasmo, e l’entusiasmo è parente stretto del divertimento e della soddisfazione, l’entusiasmo è giovane. A mio parere, nei limiti delle necessità dell’educazione scolastica non è così importante, ma almeno altrettanto importante, cosa si insegni, ma il metodo con cui lo si fa. Alcuni seguendo una logica a mio parere alquanto rigida suggeriscono di usare nell’istruzione il metodo e strumenti del mondo digitale così attraenti per i ragazzi e che tuttavia mostrano possibili rischi, che sono quelli di annacquare l’istruzione e di lasciare completamente vuoto, per citare ancora Montaigne il vaso delle nozioni che dovrebbero essere l’avviamento alla vita sociale e al lavoro. Altri suggeriscono una terapia contraria, e cioè quella di vietare la strumentazione digitale nella scuola, ma anche questa proposta mostra i suoi rischi in quanto odora di proibizionismo e potrebbe causare paradossalmente un accresciuto interesse per il frutto proibito. Sorge a questo punto un’altra domanda importante e cioè quale sia il compito principale dell’istruzione che, a mio avviso, è quello di preparare cittadini critici oltre che informati.

È importante sbarazzarsi del preconcetto del suddito che significa di ritenere che i politici e coloro che gestiscono il potere abbiano un cervello migliore del nostro, preconcetto del tutto falso con indicazioni spesso dell’inverso che mostrano che in molti casi i politici sono guidati da ambizioni personali, da una moralità fluida, e da scarso interesse a risolvere i problemi di coloro che li hanno eletti e dei quali dovrebbero essere al sevizio. E allora? Propongo la 'scuola della parola'.

È facile osservare che i giovani chini sul loro smartphone non parlano più, occupati in maniera ossessiva a scrivere e ricevere un’infinità di messaggi. Questa nuova modalità di comunicazione in voga nelle nuove generazioni, ma non solo, vanta vantaggi come un risparmio delle corde vocali, modesta diminuzione dell’inquinamento acustico e soprattutto una comunicazione algida senza il calore compromettente del contatto.

Può darsi che questa comunicazione robotica abbia i suoi vantaggi. Ma i miopi osservatori del futuro fanno difficoltà a immaginare l’insegnante che comunica alla classe con lo smartphone o con il tablet e si limita ad aggiungere un emoticon per comunicare il suo coinvolgimento nello spiegare il canto di Paolo e Francesca. L’evoluzione ha impiegato secoli a modificare il cervello per fornire la parola all’uomo che ha inventato la scrittura come protesi della memoria e poi ha inventato il texting come… Io penso che sarebbe molto utile lasciare lo smartphone a casa e andare a scuola più leggeri di peso e di mente e modestamente ritornare a parlare. Propongo la scuola della parola, dove si discute dove argomenti salienti, selezionati dall’insegnante, vengono discussi e dove ognuno è invitato a esprimere il proprio parere (come in certe terapie di gruppo), a dire la sua opinione in proposito. L’alunno deve essere protagonista, anche all’interno di un programma d’insegnamento.

La conoscenza va conquistata e non assorbita passivamente, quando viene assorbita, perché anche se faticosa la conquista induce di per sé soddisfazione, piacere che è basilare rinforzo dell’insegnamento e della conoscenza. È noto che è grande soddisfazione del cervello riuscire a esprimere un parere personale che poi può diventare materia di discussione, con i compagni e con i genitori. L’alunno deve costruire quello che vuole imparare e l’insegnare è fare un po’ come Michelangelo, scoprire la figura, la forma nascosta, in questo caso le potenzialità conoscitive, nascoste nel cervello dell’alunno. La scuola della parola è la scuola dell’emisfero cerebrale del linguaggio, quello della razionalità, la scuola della riflessione, quella del pensiero lento, direi, quella che insegna che occorre riflettere prima di decidere, e pensare prima di credere.

*Neuroscienziato, già presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei

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