martedì 19 settembre 2017
La scuola potrebbe continuare a rimanere una sorta di porto franco, libero da quell’invadenza digitale e social di cui siamo un po’ tutti vittime, adulti compresi.
Gli smartphone in classe? No, ci vuole un po' di sconnessione
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Sta facendo discutere la decisione della ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, di mettere al lavoro da venerdì 15 settembre una commissione incaricata di studiare come introdurre l’uso dello smartphone a scuola. Ma come, il 'telefonino', fino a oggi uno degli oggetti più demonizzati in classe, tanto da essere spesso oggetto di 'sequestro' da parte di insegnanti e presidi quando venga trovato in mano agli studenti durante le ore di lezione, a breve salirà addirittura al rango di strumento didattico?

La ministra Fedeli ha argomentato così: «Non si può continuare a separare il mondo dei ragazzi, quello fuori, dal mondo della scuola». E ancora: «Lo smartphone è uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata».

È vero: la scuola non può ipotizzare astrattamente l’esistenza di ragazzi che assomiglino a quelli di due o tre decenni fa. Perché nell’arco di pochi anni, gli ultimi e gli ultimissimi, il mondo è profondamente cambiato. La rivoluzione digitale ha determinato nuovi modi di conoscere, apprendere, relazionarsi con gli altri. Dunque non c’è dubbio che la scuola debba confrontarsi con questo radicale mutamento di paradigma, che per molti aspetti rappresenta un’autentica rivoluzione antropologica. L’istituzione scolastica ha l’obbligo di farsi carico di un’educazione all’uso corretto dei new media e dei dispositivi che ne consentono la fruizione. Per esempio, come ha detto la stessa ministra, bisogna mettere in guardia i ragazzi in tema di bufale e di cyberbullismo, affinché essi non ne rimangano vittime.

Bisogna però fare attenzione a non sposare acriticamente una visione soltanto positiva e sostanzialmente edulcorata del mondo virtuale dal quale siamo circondati. Quello che noto da docente è che gli adolescenti oggi fanno molta fatica a mantenere la concentrazione per un tempo adeguato a percorrere, capire ed eventualmente approfondire gli argomenti oggetto di studio. Forse proprio perché sono costantemente 'connessi'.

Sfido chiunque ad affrontare un problema di matematica o una versione di latino se l’attenzione viene continuamente interrotta dalle notifiche delle App di messaggistica istantanea. Eppure la battaglia di molti genitori affinché i figli, almeno quando studiano e fanno i compiti, spengano il telefonino è quasi sempre persa in partenza. L’idea che la scuola debba essere un mondo del tutto separato da quello reale è sbagliata, ma in un certo senso è ancor più sbagliata quella per cui essa debba rincorrere, sempre e comunque, ogni novità che si impone sul piano dei costumi sociali e delle abitudini generazionali.

Perciò, volendo, il ragionamento della ministra dell’Istruzione potrebbe essere smontato e persino rovesciato: proprio perché i ragazzi sono sempre 'connessi', non sarebbe poi così male che almeno quando sono a scuola rimanessero 'sconnessi'. La scuola, insomma, potrebbe continuare a rimanere una sorta di porto franco, libero da quell’invadenza digitale e social di cui siamo un po’ tutti vittime, adulti compresi.

Per molti adolescenti – ce lo dicono gli psicologi – quella da telefonino è una delle nuove dipendenze: ci sono ragazzi che si sentono persi se il 'segnale di campo' viene meno per più di qualche minuto e altri (o forse sono gli stessi...) che, nel timore di non vedere in tempo reale qualche messaggio, non riescono ad addormentarsi se non hanno lo smaprtphone acceso sul comodino. Anziché portare questi strumenti nelle classi, non si potrebbe invece pensare alla scuola come al luogo d’elezione in cui disintossicarsene? Domande, dubbi, perplessità che sembra utile sollevare, in vista di un dibattito franco e senza pregiudizi, in attesa che da Viale Trastevere giungano maggiori dettagli sul merito di una proposta per il momento ancora indefinita.

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