venerdì 23 agosto 2013
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Com’è difficile immaginare traiettorie per raggiungere un futuro migliore quando i pensieri sono inchiodati a un presente distorto. Tutto ciò di cui oggi l’Italia e i suoi figli hanno davvero bisogno richiede sguardo lungo, spinta progettuale, visione prospettica. Cos’altro sono le cosiddette “riforme strutturali” di cui si parla da decenni se non un disegno politico–economico sopra una tela istituzionale robusta che nutra l’ambizione di abbracciare almeno un intero arco generazionale per offrire speranza e garantire orizzonte a donne e uomini del domani? E invece la scena politica pare contrassegnata da un’ottundente precarietà: il respiro è corto, lo sguardo chiuso nel recinto di interessi particolari e si vive alla giornata, fino al prossima resa dei conti. Forse l’ultima, forse no. Chissà. Legittimo per quanto amaro obiettare che a condizionare per decenni la nostra Storia repubblicana siano state troppe geometrie variabili, legislature zoppe, governi a tempo e persino balneari. In fondo, si dice, la politica attuale non è poi così diversa. Anzi: è una versione 2.0, arricchita – o impoverita – dall’istantaneità dei nuovi media a uso esternazione prêt–à–porter. Il pegno è di restare una democrazia immatura, per certi aspetti bloccata in uno stato come adolescenziale, incapace cioè di scelte adulte. E si ammetta pure che il tessuto sociale sia quello icasticamente tratteggiato dal Censis nel suo rapporto “Fenomenologia di una crisi antropologica”, dove gli italiani vengono descritti come «sempre più impegnati nel presente, con uno scarso senso della Storia e senza visione del futuro». Eppure, mai come in questi giorni è dato percepire un contrasto stridente fra la temporalità (e la concentrazione) isterica della politica e il tempo (e il progetto) lungo che servirebbe al Paese per tornare sulle vie dello sviluppo. Disturba e preoccupa la dissonanza fra l’inseguire l’ultimo cinguettio (“Tweet”) di sfida o rassicurazione sulla possibile caduta del governo il giorno dopo e l’avvertire invece come sia sempre più urgente spingere lo sguardo in avanti, molto più in là. Disturba, preoccupa e persino indigna. Sarà perché proprio in questi giorni ci stiamo occupando, su Avvenire, delle risposte da dare a milioni di giovani che un lavoro non lo trovano, una casa non se la possono permettere e andranno (forse) in pensione con un assegno che a stento raggiungerà il quaranta per cento del loro traballante stipendio. Sarà perché c’è un Paese intero che chiede a chi ci rappresenta e ci guida dedizione, serietà e lavoro... Sarà perché fuori tempo, e fuori dal mondo, sembrano ormai i continui consulti e vertici di mezza sera, i faccia a faccia del pomeriggio, le retromarce mattutine, le minacce e invettive senza costrutto dei vecchi e nuovi signori dei partiti. Non ci possiamo rassegnare alla “bolla” dell’eterno presente in cui saremmo immersi, perché anche il presente, questo nostro oggi, è sotto embargo e in realtà tutti – e tra tutti di più i giovani – siamo prigionieri di un futuro prossimo sotto tutela e sotto ricatto. A questo siamo, e non ci si può neanche illudere che risolvere le questioni economiche più impellenti – siano esse lo spread da smussare o gli esodati da salvaguardare, l’Imu da rifare o la Cassa integrazione da rifinanziare, tutte azioni indispensabili, certo, e anche meritorie laddove si riesca a far quadrare il cerchio – sia di per sé sufficiente a gettare e basi per lo sviluppo: come intuì Abba Lerner già negli anni Settanta, «l’economia si è guadagnata il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo i problemi politici già risolti». E l’Italia invece quei «problemi politici», a partire dalla legge elettorale e dal quadro istituzionale e di governo che le regole del voto devono democraticamente servire, non li ha ancora risolti. Per questa ragione si possono fare al massimo piccole correzioni al bilancio, non certo riforme, ancora costretto com’è l’esecutivo di larghe intese, per quanti sforzi faccia, a uno sguardo strabico: un occhio rivolto al passo successivo, per non inciampare, l’altro al debito pubblico da riportare sotto il 60% del Pil nel 2020. Impossibile mettere correttamente a fuoco i problemi quando la prospettiva è così distorta. Ci vogliono scelte coraggiose, allora, per rompere questo incantesimo. Che richiedono un supplemento di responsabilità – parola quasi stropicciata, per quanto la si pronuncia e talvolta la si deforma. L’uomo è per sua natura aperto al futuro perché de–sidera, guarda le stelle. E il buon desiderio (quello che non inclina a capriccio) c’è anche e soprattutto in politica laddove si è capaci di guardare oltre se stessi per rispondere a chi chiede del domani ed è il domani.
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