Ricordiamoci che la cooperazione è una sorella gemella della Missione
mercoledì 13 maggio 2020

Caro direttore,
ho letto il suo editoriale, 'La vera gioia e la vergogna', apparso su 'Avvenire' di oggi 12 maggio e devo dirle che non sono d’accordo in toto con lei. Vengo subito alla questione del pagamento del riscatto. Ritengo che i soldi spesi per salvare una vita umana non siano mai troppi. Tuttavia questa dovrebbe essere l’unica finalità di somme di denaro versate al limite anche in mani indegne; insomma, non dovrebbero comportare alcuna altra conseguenza. In questo caso, però, occorrerebbe chiedersi in quali mani siano finiti quei soldi (do per scontato che un riscatto sia stato pagato per la liberazione di Silvia Romano, altrimenti perché l’avrebbero liberata?) e che uso ne faranno i loro 'beneficiari'. Mi riesce difficile pensare che i miliziani di al-Shabaab li profonderanno in opere di beneficenza. L’unica conclusione per ora fondata sui fatti è che continueranno a utilizzarli per finanziare atti di terrorismo non solo contro i cooperanti occidentali, ma anche contro persone del loro Paese e dell’Africa in generale. Se abbiamo pagato il riscatto per la liberazione di Silvia Romano, possiamo stare certi che vi sarà un altro rapimento a scopo di estorsione da parte della stessa organizzazione terroristica, che nel rapimento degli occidentali, in particolare degli italiani dal cuore tenero e dalle facili emozioni, hanno scoperto la loro 'gallina dalle uova d’oro'. Ritengo, perciò, che sia da tempo venuto il momento di spezzare l’infausta catena rapimento/riscatto/liberazione; nel contempo il governo italiano dovrebbe proibire con i mezzi a sua disposizione ai futuri cooperanti italiani di recarsi in paesi a rischio, con l’unica eccezione per i missionari.

Roberto Bernacchia Mondolfo (Pu)

Gentile direttore,
credo che sia possibile avviare una riflessione seria, anche politicamente seria, sulla vicenda di Silvia Romano senza strumentalizzazioni di parte o generici appelli all’altruismo. Io vorrei lasciare tranquilla la giovane donna, che sicuramente ha vissuto un’esperienza tragica con conseguenze ancora tutte da elaborare, e che avrebbe bisogno di essere sottratta all’inevitabile sovraesposizione mediatica di questi giorni. Penso piuttosto al significato della cooperazione internazionale delle organizzazioni di volontariato e a come viene attualmente portata avanti. Ritengo che sia una modalità importante di rapporto tra gli Stati che cerca di offrire un canale alternativo rispetto allo sfruttamento imperante a livello internazionale. D’altra parte si sa che i volontari e cooperanti, verso i quali sono doverosi stima e rispetto, così come per i missionari, possono diventare 'merce' preziosa in mano alle bande di fondamentalisti o criminali comuni che abbondano in certi territori, i quali sequestrano e poi rilasciano gli ostaggi sempre quando ottengono contropartite economiche e, talvolta, politiche. Non credo che rifiutarsi di pagare i riscatti, che sicuramente in queste situazioni vengono pagati, possa essere una soluzione umana, anche se mi sembra che sia questa la soluzione adottata dagli Stati Uniti. D’altra parte però si potrebbe fare in modo di organizzare nella misura migliore l’attività della cooperazione, come ribadito anche in questi giorni dal presidente della Focsiv, e impedire un volontariato, più o meno, 'fai da te' che aumenta i rischi per tutti, oltre a dimostrarsi sicuramente meno efficace.

Massimo Biselli Roma Belle lettere, stimolanti.

Mi colpisce che il lettore Bernacchia, dicendosi «non d’accordo in toto» con ciò che ho pubblicato ieri in prima pagina, abbia scelto di concentrarsi sull’unico argomento che non ho neppure sfiorato, un tema che anche il lettore Biselli affronta nel suo serrato ragionamento ma senza dargli assoluta centralità. La questione è quella del possibile, quasi certo, riscatto pagato per agevolare la liberazione di Silvia Romano nel corso dell’operazione condotta dai nostri Servizi segreti in collaborazione con i Servizi segreti somali e turchi, ovvero con altri 007 nemici di al–Shabaab (organizzazione jihadista legata alla “vecchia” centrale terroristica di al–Qaeda). Già, certe partite sono sempre più complesse di quanto appaia a prima vista. E la mia esperienza di cronista mi induce a non mettere la mano sul fuoco su nessuno dei passaggi tattici (e sui destinatari dei possibili, quasi certi, piccoli o meno piccoli passaggi di denaro) che hanno portato al felice risultato finale del ritorno a casa di una nostra concittadina. Non mi sono occupato di questi aspetti nel mio articolo di fondo, perché quel commento aveva un altro tema e un altro obiettivo morale (credo che ogni editoriale ne debba avere uno e uno solo, per non diventare una specie di collage). E ovviamente non l’ho fatto per disinteresse o sottovalutazione del punto, ma semplicemente perché avevo affidato l’analisi su tali aspetti a un assoluto esperto come il professor Riccardo Redaelli ( tinyurl.com/y8j2whhy ) oltre che alle preziose testimonianze di padre Giulio Albanese e di Susan Dabbous. In contemporanea Vincenzo Spagnolo ha dato sobria e soda profondità alla cronaca e al suo dietro le quinte, Marta Ottaviani si è concentrata sul gioco turco e Toni Mira ha spiegato da par suo la “filosofia” che – ormai da decenni, e meno male! – sta alla base delle scelte delle nostre Istituzioni e dell’azione dei nostri agenti. Una linea all’insegna del “prima le persone” che è l’esatto contrario di quella tipica della visione dominante negli Usa (così tipica, che la vediamo emergere prepotentemente anche nella lotta alla pandemia da coronavirus...) per la quale per i sequestrati c’è o un salvataggio di forza o l’abbandono. Francamente, io sono felice – e anche orgoglioso – di essere cittadino italiano. Naturalmente è solo la mia opinione, ma nel tempo si è fatta più salda. La dichiaro e la scrivo, infatti, da quasi quarant’anni, ventisei nel nostro “Avvenire”, che però la argomentava da ben prima che io ci venissi a lavorare. È un’opinione – e vengo a quello che per me è il cuore di questo dialogo – che ha radici forti nella realtà e che contempla in nessun modo un preventivo e assoluto divieto di cooperazione allo sviluppo in alcune aree del mondo troppo rischiose e dunque da disertare. Quanto meno dalla Populorum progressio di san Paolo VI, ma già da prima nell’esperienza di tanti Santi e Sante “apripista”, abbiamo ben chiaro che la cooperazione è una sorella gemella della Missione. Annuncio cristiano e sviluppo umano integrale sono connessi, e tanto più oggi. Certo, vanno valutate situazioni e circostanze e – come saggiamente scrive Massimo Biselli – non può darsi e non deve proporsi un avventuroso fai–da–te. Come i lettori sanno bene gli amici della Focsiv, cioè della Federazione degli organismi cristiani di Servizio internazionale volontario, a cominciare dal presidente Gianfranco Cattai, di questa serietà nella generosità sono testimoni e garanti. Mi fermo qui. Le vostre lettere, gentili e cari amici, mi hanno aiutato anche a ridire la bellezza del “fare” un giornale. Essa è tutta nella polifonia che ho accennato e che non può esaurirsi in ciò che di volta in volta scrive il direttore. È una polifonia che va costruita ogni giorno di nuovo, ma che si sviluppa nel tempo, con una precisa coerenza. Vale ovviamente per ogni quotidiano, ma un po’ di più – mi permetto di dire – nel caso di un giornale di ispirazione cattolica come “Avvenire”. Continuo a verificare che è questo che tanti lettori sanno apprezzare o anche, come nel caso del dottor Bernacchia, civilmente discutere. Grazie, auguro a tutti buone letture.

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