domenica 22 novembre 2009
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Nessuno mette in dubbio che la ragionevole durata dei processi sia essenziale per assicurare non solo l’efficienza della giustizia, ma la sua effettiva funzione. Un diritto che non può essere accertato e fatto valere tempestivamente, con il processo civile, è di fatto negato. La pretesa punitiva che si afferma in un processo penale che si protrae indefinitamente, danneggia l’innocente, perché il processo è già pena, e favorisce il colpevole. Un giusto processo è tale non solo per le sue regole, l’imparzialità del giudice e la parità delle parti, ma anche per la sua tempestività. Una giustizia efficiente non solo soddisfa l’esigenza di chi è coinvolto in questo servizio e ne è utente, ma risponde a un interesse generale. È garanzia di legalità, induce al puntuale adempimento delle obbligazioni, concorre a offrire un quadro di sicurezza giuridica, che è elemento essenziale per gli investimenti e lo sviluppo economico.Qualsiasi intervento che abbia come risultato una giustizia efficiente, equa e resa con sollecitudine, va salutato con favore. Ma può essere attribuito questo carattere alla iniziativa legislativa che nel determinare la durata dei processi penali nei diversi gradi di giudizio, in conformità a quanto ci si attenderebbe che accada, stabilisce la estinzione del processo e che l’azione non possa più proseguire se quel termine non è o non può essere rispettato, vanificando del tutto l’attività svolta? Che l’azione penale non possa essere promossa o proseguita dipende da eventi e situazioni esterni al processo, quali la mancanza o il venir meno della richiesta punitiva fatta dalla parte offesa dal reato; in questo caso invece la improcedibilità dipenderebbe dallo stesso svolgersi del processo. È ragionevole stabilire questa definitiva paralisi dell’azione, se il reato non è prescritto e non è quindi estinto, ma non può essere più accertato ? Risponde al principio di eguaglianza che il limite di durata del processo dipenda dalla qualità dell’imputato, dal non avere precedenti penali? È ragionevole la sostanziale retroattività, che consente di applicare la nuova regola che impone un ristretto limite temporale, facendolo tuttavia decorrere e consumandolo in buona parte, per i processi in corso, anche prima dell’entrata in vigore della nuova legge?Certamente l’obiettivo di tempi ragionevoli per la durata del processo deve essere perseguito con incisività ed efficacia. Sono in gioco diritti fondamentali, e con essi  i "costi umani" della giustizia. La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stabilisce che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale». La Costituzione italiana offre analoghe garanzie, stabilendo che la legge assicura la ragionevole durata di ogni processo, quindi non solo penale ma anche civile. Questo tuttavia non significa fissare per legge la durata massima del processo, decretandone la estinzione senza che avvenga il giudizio, ma piuttosto impone di organizzare la giurisdizione perché il giudizio sia reso in quel termine. Il principio comune alla Costituzione e alla Convenzione europea è che il risultato, la decisione sia emessa in un termine ragionevole.Ottenere questo risultato è molto più complicato che non fare una nuova legge, e contraddice la diffusa tendenza a sottovalutare l’aspetto organizzativo, che richiede un impegno costante e non offre risultati immediati. Gli organici della magistratura e del personale ausiliario sono largamente incompleti, mancano circa il 10% dei primi e oltre il 20% dei secondi. Coprendo interamente gli organici, si può ragionevolmente ritenere che con i nuovi addetti si avrebbe un incremento della produttività del sistema prossimo nella stessa misura percentuale della attuale scopertura; i procedimenti sopravvenuti potrebbero essere fronteggiati, se non vi fosse il peso dell’arretrato. La domanda giudiziaria annuale è concentrata, per poco meno del 20% nei tribunali e per oltre il 35% nelle corti d’appello, nelle tre sedi metropolitane di Milano, Roma e Napoli, che richiederebbero una specifica considerazione.Per aprire serie prospettive di uscita dalla crisi di produttività del sistema, è necessaria una complessiva riorganizzazione degli uffici giudiziari e la organizzazione della gestione dei singoli processi, pianificandone assieme alle parti tempi e modalità di svolgimento. Questo impegno sollecita e coinvolge non solo il legislatore e il governo, ma anche la magistratura, l’avvocatura e le altre categorie che operano nel settore giudiziario.Al ministro della Giustizia "spetta", come vuole la Costituzione, l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, e quindi la relativa responsabilità, anche nel valutare, chiarire e fronteggiare gli effetti della introduzione del termine di durata del processo. Questa responsabilità organizzativa implica l’attribuzione e l’esercizio dei poteri necessari, da non intendere in modo riduttivo o rinunciatario, come spesso è accaduto. Un processo breve, questo sì per i rapidi tempi nei quali il giudizio si svolge e deve concludersi con l’accertamento dell’innocenza o della colpevolezza, limiterebbe anche i danni di azioni penali talvolta clamorose, che non solo feriscono irrimediabilmente la credibilità di persone, ma hanno anche conseguenze sulle istituzioni, e che si rivelano a distanza di anni azzardate o infruttuose. Se questo obiettivo è condiviso, sarebbe lecito attendersi che la giustizia non rimanga l’abituale terreno di scontro, ma susciti invece uno spirito di serio e sereno approfondimento, se non la condivisione delle soluzioni, tra quanti, pure in diverse collocazioni professionali o con appartenenze politiche anche contrapposte, hanno a cuore il bene comune.In un quadro generale, il corretto rapporto tra politica e magistratura, e anche legittimi problemi e interessi particolari, potrebbero trovare corretta ed equilibrata soluzione.
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