mercoledì 22 agosto 2012
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I segni sono più importanti della rozza materia di cui son fatti, i segni dicono di più, alludono, fanno pensare. Una scintilla è un niente in sé, ma nel pensiero che segue arde un fuoco, guizza una fiamma. I vandali, o i ladri, che hanno divelto le persiane esterne e gli infissi di alluminio del Centro di accoglienza "Padre nostro", a Palermo, portandoseli via, saranno pure dei ladruncoli o dei teppistelli, ma la miserabile impresa che hanno fatto è un segno, e ci fa pensosi.Il Centro di accoglienza, nel cuore del Brancaccio, è l’avamposto che un piccolo prete santo, padre Pino Puglisi, fondò per portare dentro il contesto del disagio e dell’emarginazione sociale di un territorio segnato da una tragica povertà materiale e culturale, il vangelo della carità. La mafia non glielo perdonò, e lo uccise. Lo uccise in odio a questa sua fede, così disse il processo; una fede più grande di ogni sociologia dei fenomeni mafiosi, da tutti riprovati, esecrati, combattuti. E ancora inestirpati.Ma inestirpabili no. No, proprio per intercettare la radice della mala pianta don Pino cercò in positivo la promozione umana della sua gente, oppressa dal degrado, chiamandola alla vita con la forza della fede cristiana, quella che assume nel vincolo comunitario condiviso «le gioie e le speranze e le tristezze e le angosce degli uomini», come aveva detto il Concilio. Cercò il recupero degli adolescenti insidiati dal reclutamento mafioso. Concretezza, azione quotidiana dentro quel dibattito italiano sulla "cultura della legalità", promosso da un documento storico della Cei (1992), costantemente ripreso, approfondito infinite volte, e pur mai concluso ancora a 20 anni di distanza dall’uccisione di Falcone e Borsellino. Tuttora restiamo tesi, da cittadini e da cristiani, alla fecondità del seme evangelico, cui don Puglisi ha dato testimonianza di sangue, e il Centro "Padre nostro" promessa di continuità, e che ancora invoca la sua maturazione nelle coscienze.La mafia va sconfitta in radice, totalmente. La mafia, sappiamo ormai, è problema più grande degli schemi giuridici e politici che abbiamo vissuto, fra stragi e processi e cupe ombre di sfide (sul 41-bis, crudele di suo) e di asseriti armistizi. Mafia, in profondo, è mentalità. Mafia è mentalità di violenza e di sopraffazione, così diceva don Puglisi che l’aveva capita. La svolta radicale è dunque la scommessa sulla generazione nuova, serbata da contaminazione mafiosa in nome dell’onestà della vita, del rifiuto della disonestà della vita.Dicono gli attuali dirigenti del Centro di accoglienza, dopo l’ennesimo furto, dopo l’ennesimo responso che "contro ignoti" tutto s’ingorga (fenomeno per verità non siciliano, ma nazionale), che hanno voglia di andarsene, di finirla lì. Forse hanno ragione, per poco che alzino voce in questa stagione in cui abbiamo celebrato (e fra noi molti di quelli che contano, per legge e potere) il ventennio della morte dei martiri di mafia, senza che sia accaduto nessun miracolo per bocca dei grandi. Ma i miracoli, i santi lo sanno bene, accadono per strada, nel silenzio fedele e continuo di chi non cessa d’amare.Forza, non andate via. Forse verrà giorno che quei disperati ladruncoli, quegli spacciatori di un segno storto, busseranno proprio alla vostra porta, se voi restate. Lui l’ha persino predetto, don Puglisi: «Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Il Signore bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto si aprirà». Non chiudete, siamo con voi.
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