Quel sapore profugo d'infanzia perduta
domenica 12 settembre 2021

Caro direttore,

in questi giorni in cui siamo attoniti e preoccupati di fronte a quanto succede in Afghanistan, alla situazione delle donne, alla loro dignità, al loro coraggio, la realtà del quotidiano aiuta ad allargare lo sguardo. L’altro giorno è arrivata alla mensa del Centro Astalli una ragazzina di poco più di 17 anni, originaria di uno dei Paesi dell’Africa Sud Sahariana, trovata alla Stazione Termini di Roma, che vagava disorientata e senza meta. In pochi minuti è risultato chiaro a tutti che si trattava di una di quelle ragazze sulle cui fragili spalle pesano le brutture di un mondo malato: tante ingiustizie e tanta violenza. Rimasta sola nel suo Paese, viene venduta ai trafficanti, consegnata alla tratta di persone, passa per la Libia e viene abusata in varie circostanze.

In grembo porta un bimbo, lei bambina che ha dovuto crescere troppo in fretta. Mentre aspettavamo di capire come procedere, le abbiamo chiesto se volesse mangiare qualcosa, se avesse qualche necessità. Con lo sguardo basso la risposta è sempre stata: «No, merci!» Poi a una domanda venuta un po’ per caso complice ancora il caldo di questi giorni: «Vuoi un gelato?».

Finalmente una risposta: «Sì, al gusto di fragola». Ci premuriamo di procurarglielo, ma appena comincia a assaporarlo arrivano gli agenti di Polizia incaricati di affidarla a una struttura per minori. Con grande tatto e delicatezza gli uomini delle forze dell’ordine hanno aspettato di fronte allo spettacolo semplice e dolce di una ragazzina che gusta il suo gelato. Quello che doveva essere un momento di normalità per una ragazza della sua età, si rivela essere agli occhi di tutti un momento del tutto eccezionale di ordinarietà, in una vita così breve ma già troppo segnata dalla fatica di vivere.

In quella risposta immediata: 'Sì, al gusto di fragola', si esprime il rifiorire di un desiderio semplice e innocente di qualcosa di buono, di non comune nella sua vita ma, certo, già gustato, magari in uno dei suoi momenti, di un’infanzia lontana. Gli occhi di un nero intenso guardano solo la coppetta, in un momento di pace che nessuno ha voluto interrompere. E allora il pensiero va a tante altre ragazze: afghane, ma come loro e con loro siriane, yazide, congolesi , nigeriane o del Myanmar, che pagano il prezzo di un mondo ferito dall’ingiustizia, dal sopruso, dalla cecità di integralismi, e che le costringe a diventare grandi in fretta con la prospettiva in un futuro che mortifica la loro dignità.

Ma ancora più è fonte di amarezza l’ottusità di un sentire che si fa sempre più comune anche alle nostre latitudini che le persone in cerca di diritti e felicità non possono trovarli dove credono sia meglio, ma dove noi decidiamo che debbano stare, cioè il più lontano possibile da casa nostra. E per far questo le lasciamo alla deriva su barconi che nessuno vuol salvare o in cammino in viaggi che nessuno vuole consentire. E se a un cristiano tutto questo sembra normale, quel cristiano dovrebbe chiedersi se la sua religione non è quella da cui ci hanno messo in guardia la Lettera di Giacomo di domenica 5 settembre e l’udienza di papa Francesco di mercoledì scorso, una religione che discrimina e che quindi non è autentica.

«Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: 'Tu siediti qui, comodamente', e al povero dite: 'Tu mettiti là, in piedi', oppure: 'Siediti qui ai piedi del mio sgabello', non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?».

Sacerdote, presidente Centro Astalli servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia

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