venerdì 27 gennaio 2012
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È facile essere d’accordo con la politica di liberalizzazioni che è stata avviata. Sono infatti molte le ragioni che portano tanti ad avere uno sguardo fiducioso, generoso e simpatetico nei confronti dell’operato del Governo Monti, comprese le liberalizzazioni, necessarie in un’Italia bloccata da troppi interessi di parte che finiscono per diventare «male comune». Ma proprio per questo sguardo complessivo positivo è importante portare l’attenzione su una domanda di fondo, che riprende discorsi già impostati su queste pagine: quale idea di modello economico e sociale per l’Italia di oggi e di domani ha in mente questo governo? Liberalizzare un sistema economico significa, in estrema sintesi, aumentare il peso del mercato all’interno della vita civile. L’Italia ha sempre avuto meno mercato dei Paesi anglosassoni (Inghilterra e Usa in particolare), perché il posto del mercato lo hanno occupato non solo uno Stato spesso inefficiente e ipertrofico, ma anche la famiglia e le comunità. È, infatti, questa terza dimensione, che possiamo chiamare «società civile di tipo comunitario», che caratterizza il modello italiano, e in un modo più marcato degli altri Paesi europei di cultura latina. È, il nostro, un modello diverso dal capitalismo americano, ma anche da quello dei Paesi scandinavi, poiché in questi due modelli la dimensione comunitario-familiare è di fatto relegata nella sfera privata delle persone, senza che le venga riconosciuta la natura di principio e di ambito di carattere pubblico e politico. Nelle politiche economiche che stiamo osservando, allo stato delle cose, non è purtroppo chiaro quale sia la visione relativa a questa terza dimensione, che, giova ripeterlo, è una colonna della nostra identità e storia, e che ha anche importanti effetti economici. Anche se le categorie culturali per "vedere" questa dimensione dell’Italia ci sono – ci sarebbero – si ha come l’impressione che la cura che si sta approntando per il malato Italia potrebbe essere applicata a qualsiasi altro Paese: dall’Argentina alla Finlandia. Se invece si vedesse davvero questa terza dimensione, ad esempio, si dovrebbero considerare diversamente le varie realtà del cosiddetto Terzo Settore. Innanzitutto, si capirebbe che le cooperative o le imprese sociali sono imprese a tutti gli effetti, poiché la cosiddetta economia sociale o civile in Italia non ha la stessa funzione – e, quindi, natura – del non-profit anglosassone. Il Terzo Settore italiano ha essenzialmente una natura produttiva, non redistributiva come nel modello filantropico-restitutivo degli Usa. In Italia la cooperazione, la finanza etica, il commercio equo, il variegato mondo dell’economia comunitaria è la fioritura moderna della cultura civile che ha prodotto i Monti di Pietà nel Quattrocento, e poi le casse rurali e di risparmio, e quindi la cooperazione di produzione, rurale, di consumo. Oggi come ieri, l’economia civile è l’espressione economica di questa terza dimensione civile-comunitaria del nostro modello di sviluppo. Ma, di questi tempi, quando si sente parlare di impresa è forte l’impressione che nel Governo, in Parlamento e sui giornali ci sia chi ha in mente soltanto l’impresa capitalistica – grande, media o piccola – e che si collochi nel mondo del "sociale" o del "volontariato" quell’altra miriade di soggetti economici che pure creano ricchezza, valore aggiunto e posti di lavoro (oggi più di un milione), attingendo proprio alla nostra vocazione comunitario-famigliare. Occorre, invece, tenere ben presente che l’impresa tradizionale non potrà più creare posti di lavoro come prima della crisi, né, tantomeno, potrà farlo lo Stato. In simili momenti è stata la società civile che ha inventato nuovi lavori e nuova ricchezza (si pensi, ancora, alla cooperazione tra Ottocento e Novecento); qualcosa di simile dovrà avvenire anche oggi, purché il Governo lo veda e agisca di conseguenza anche sul piano fiscale. È in questo contesto culturale ed economico più generale e profondo che va anche inserita la valutazione della liberalizzazione dell’orario degli esercizi commerciali. Gli effetti di breve periodo di questa forma di liberalizzazione (diversa dalle altre, ripeto, necessarie e opportune), possono forse essere benèfici per i consumi e quindi per il Pil, anche se, dobbiamo ricordarlo, uno stile di vita centrato sull’aumento dei consumi è la malattia del nostro modello, non la cura. Ma ciò che è certo è che nel medio periodo (3-5 anni) scompariranno tutti quei negozi a conduzione famigliare che già soffrono da decenni, e che da domani non potranno certo tenere il passo di chi ha forza e capitali per gestire personale per turni "24h/7g". È il modello del grande-lontano-anonimo che prenderà sempre più piede, come sta già accadendo nei Paesi anglosassoni. Ma il piccolo-vicino-personale non è soltanto sinonimo di prezzi più alti, è anche espressione di un modello economico-civile che fa parte del nostro Dna borghigiano e cittadino, di città che si chiamano Offida e Lodi, non Miami né San Francisco. E che fa sì, tra l’altro, che i centri storici siano ancora (sebbene con fatica) abitati da persone e da incontri e non solo da uffici, e che gli anziani possano trovare merci e persone sottocasa. Rendere possibile la vita sia alla grande distribuzione organizzata sia al negozio a conduzione famigliare non è buonismo né nostalgia, ma è questione di democrazia e di libertà, che vivono e si alimentano della biodiversità, anche nelle forme di imprese e di negozi. Trovare un negozio chiuso, magari la domenica, ci ricorda che il mercato è un pezzo di vita, non tutta, che esistono dei limiti al commercio e al consumo, che dietro quelle serrande ci sono non solo merci ma persone, e che i tempi del mercato e del lavoro – come ancora una volta ci ha ricordato lunedì il cardinale Bagnasco – vanno iscritti all’interno dei tempi del vivere e della festa, e non viceversa.
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