Quanto vale e quanto (e come) va pagato il gran lavoro di coloro che fanno scuola
domenica 20 ottobre 2019

Caro direttore,

gli insegnanti devono essere pagati poco. Perché? Perché deve essere sempre chiaro a tutti che il loro mestiere è sorretto da motivazioni volontarie, e da una logica che esclude il tornaconto economico. La scuola non è un’impresa né un’azienda, in nessuna delle sue funzioni culturali; per farla funzionare esiste una struttura amministrativa che non dovrebbe avere nessun contatto con l’insegnamento, con la didattica e col sapere. Infatti, chi sceglie di fare l’insegnante esercita in aula la propria professionalità (e fa formazione continua su di sé) e riceve un’austera retribuzione, solamente come forma di rimborso-spese. Soltanto tenendo gli stipendi bassi, si può avere un ceto di professori motivati e preparati. E dato che l’entusiasmo non ha prezzo e la professionalità non si può comprare, si tratta semmai di strutturare per il corpo docente una intelligente rete di detrazioni per l’acquisto di libri, e-book, di sgravi fiscali per i viaggi di aggiornamento culturale, di sconti o gratuità per l’ingresso a teatri, cinema, mostre e musei. La ricchezza materiale è sempre stata in conflitto con il progresso personale verso la conoscenza perché ostacola la ricerca, lo studio, la quiete e il desiderio di trasmettere quanto si sa. In una delle 101 storie zen, Zengetsu, un maestro cinese della dinastia T’ang, scrisse al suo allievo: «La povertà è il tuo tesoro. Non barattarla mai con una vita agiata». La mission della scuola, in democrazia, è ottenere un corretto rapporto tra le componenti sociali: adulti, giovani, istituzioni. Perciò, se si vuole non tanto preparare le figlie e i figli delle élite italiane all’inevitabile "fuga dei cervelli" all’estero, ma si intende educare l’intera cittadinanza a non vivere mai al di sopra delle proprie possibilità, le risorse finanziarie ci sono già: questo tipo di riforma della scuola è a costo zero, ovviamente.

Andrea G. Sciffo


Gentile direttore,

ogni tanto si riaffaccia la teoria dell’insegnamento come una "vocazione". A fasi alterne riemerge l’antica disputa tra chi reputa gli insegnanti una sorta di "fannulloni" e una categoria privilegiata, e chi li concepisce come "missionari". Per cui c’è chi ha l’ardire di ipotizzare ulteriori incrementi dell’orario di servizio, a parità di retribuzione salariale. Sorvolo sul fatto (da molti ignorato) che un notevole carico di lavoro e di studio è già sopportato ogni giorno da qualsiasi insegnante scrupoloso, nei tempi extra-scolastici e in forma gratuita. Mi riferisco agli adempimenti individuali aggiuntivi e volontari, un lavoro che si presenta oltre l’orario di lezione, necessario e funzionale all’attività didattica quotidiana: preparazione delle lezioni e correzione dei compiti, compilazione dei registri e altri documenti burocratici, cartacei e digitali, e via discorrendo. Purtroppo, a mio parere, nella scuola italiana prevale una corrente di pensiero e di prassi clericaleggiante: è una visione quasi religiosa che, con malcelata ipocrisia, concepisce la funzione pedagogica appunto nei termini di una "missione". In base a una simile congettura, i docenti dovrebbero lavorare di più, animati da una "vocazione", offrendo prestazioni a titolo gratuito. Strana e bizzarra visione, inerente solo agli insegnanti, e non, ad esempio, ai presidi o ai bidelli. Pardon, dirigenti e collaboratori scolastici. Idem per avvocati, notai o medici, e tutti gli altri professionisti. Insomma, a tutti i lavoratori le ore impegnate vengono retribuite in modo decente. Gli unici a essere offesi, bistrattati e derisi sono i "missionari" della scuola, che per altri sarebbero dei "lavativi privilegiati". Ebbene, si mettano d’accordo tra di loro: sono missionari o nullafacenti? Né l’uno, né l’altro. Molto più laicamente, dovremmo essere qualificati come professionisti, da onorare e retribuire in quanto tali, cioè in termini più dignitosi!

Lucio Garofalo


Si fa presto a dire scuola, si fa presto a dire insegnanti… Leggere queste due lettere, gentili e cari amici, mi ha confermato che non c’è semplificazione che tenga. Ho scelto di mettere l’una accanto all’altra le vostre opinioni così ben argomentate, coinvolgenti, capaci di suscitare obiezioni e condivisioni forti, perché sono sempre più convinto che la questione del "valore" del fare scuola merita un posto centrale nella riflessione pubblica. Su queste pagine proviamo da sempre a essere all’altezza di un tale compito, che il passare degli anni rende più necessario e urgente, e questo proprio perché l’Italia «resta purtroppo fanalino di coda nell’Unione Europea» per «la retribuzione degli insegnanti». Un’annotazione pacata e amara che è venuta a commento dell’avvio del nuovo anno scolastico da un "esperto di formazione" che si chiama Gualtiero Bassetti, che oggi è cardinale e arcivescovo e presidente della Cei, e non ha mai dimenticato quell’altra vocazione che ha segnato la sua vita di prete e di maestro. Ho scritto e detto anch’io molte volte che vorrei, anche nel nostro Paese, ben altro riconoscimento sociale e retributivo per gli insegnanti. Resto di questa opinione, e ancora di più in quest’«epoca di cambiamento», perché non c’è lavoro più decisivo in una comunità della formazione dei giovani e della trasmissione delle idee, delle conoscenze e delle competenze che sono patrimonio dell’umanità. Non cambio idea anche se il ragionamento del professor Sciffo è davvero suggestivo e trovo interessanti e giuste (sebbene non del tutto inedite) le modalità ulteriori di integrazione del reddito di un docente – «detrazioni per l’acquisto di libri, e-book, sgravi fiscali per i viaggi di aggiornamento culturale, sconti o gratuità per l’ingresso a teatri, cinema, mostre e musei» – che elenca e indica per sostenerne il lavoro, la vita e l’aggiornamento. Ma anche al professor Garofalo vorrei dire di non liquidare con sufficienza l’idea e la pratica della «missione» nell’esperienza delle donne e degli uomini di scuola. La missione non è un abito "clericaleggiante", un’idea paludata della professione che si esercita e del dovere che si onora, è piuttosto un modo aperto e generoso, fondato e liberante di concepire e vivere il cammino e l’incontro con gli altri. Come pensare meglio e altrimenti il lavoro nella scuola e per i più giovani? Insegnare e mestiere, cioè servizio, e missione, cioè mandato. Come districare l’uno dall’altro? Lo dico con negli occhi e nella memoria l’esempio dei miei genitori (che sono stati entrambi insegnanti) e dei buoni maestri che ho avuto, e che non dimentico.

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