sabato 25 febbraio 2012
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​Ancora una volta il comportamento gratuitamente offensivo di un reparto di militari americani sta contribuendo ad ampliare lo spazio di manovra dei taleban, spostare sempre più il posizionamento di Isaf da forza di "assistenza alla sicurezza" del popolo afgano a "corpo di occupazione" e a mettere in crescente difficoltà il governo del presidente Karzai nel suo tentativo di trovare una soluzione "politica" a dieci anni di guerra. Questa volta si è trattato del rogo di alcune copie del Corano ad opera di agenti della polizia militare (lo stesso corpo coinvolto nello scandalo del carcere iracheno di Abu Ghraib). Qualche tempo prima, un reparto combattente non aveva trovato di meglio che orinare sui cadaveri dei nemici. Nelle settimane intercorse tra i due episodi, era circolata in Rete una "foto-ricordo" di un altro plotone di militari con una bandiera delle SS alle spalle. Si tratta di episodi diversi, ma accomunati dalla capacita di provocare particolare scandalo (ma lo sdegno è di tutti) presso interlocutori differenti – le opinioni pubbliche islamiche, quella afghana e quelle occidentali –, il cui sostegno è comunque cruciale per il buon esito della campagna. Francamente ha dell’incredibile il ripetersi, regolare e frequente, di azioni tanto sconsideratamente controproducenti rispetto a quel "comprehensive approach" che era stato individuato dal generale Petraeus – oggi a capo della Cia, ma in precedenza comandante in capo prima in Iraq e poi in Afghanistan – quale fattore critico di successo per il progressivo trasferimento alle autorità afghane della responsabilità della sicurezza del Paese. La cosiddetta "Anaconda Strategy", che avrebbe dovuto stritolare gli insorgenti in una morsa composta solo in parte dall’impiego della forza militare, ne esce ulteriormente indebolita. Ma anche l’immagine delle Forze armate Usa. Da un lato un corpo di ufficiali capace di esprimere figure del calibro di Petraeus, appunto, in cui alla grande attitudine al combattimento in condizioni estreme si uniscono a una formazione culturale e organizzativa di prim’ordine, al punto che proprio nelle file degli alti ufficiali sono spesso individuati gli uomini per ricoprire prestigiosi incarichi amministrativi o politici. Dall’altro, i "ranghi", in cui una formidabile capacità "combat" è associata a una devastante immaturità e una desolante "inattitudine" a comprendere tutte le componenti "non di combattimento" delle nuove forme assunte dalla guerra. Non occorre un dottorato alla Columbia o un master al Mit per capire che profanare il libro sacro della popolazione che si sta proteggendo o umiliarne i morti annulla in un momento qualunque sforzo volto a migliorare la condizione femminile, garantire un processo democratico o provare a instillare una maggiore fiducia verso i militari stranieri: ovvero rende sempre più impossibile la "conquista dei cuori e delle menti" della popolazione civile. E tutto questo si somma, purtroppo, alle tante vittime civili dei bombardamenti aerei, alle eliminazioni "mirate" da parte dei droni e dei mitragliamenti ad opera degli elicotteri d’assalto. È appena il caso di notare, oltretutto, che se le morti collaterali sono un prezzo inevitabile che si paga alla scelta di impiegare le armi, i comportamenti stupidamente e deliberatamente offensivi sono eliminabili proprio ricorrendo a quella disciplina che dell’ethos militare rappresenta, sotto qualunque bandiera, un principio riverito e irrinunciabile. «Professional, Polite, Prepared to kill» (professionali, educati, preparati ad uccidere) recitava un cartello all’ingresso di una grande base americana in Iraq. Il ripetersi di episodi del genere induce ad interrogarsi se quel cartello, brutale e sardonico, non fosse persino troppo ottimista e se qualcosa cominci a non funzionare più nell’addestramento delle truppe americane. In queste ore è difficile sfuggire al confronto tra il comportamento tenuto dai nostri marò fermati dalle autorità indiane e quelli che han dato abbrivio alle ennesime manifestazioni violente in Afghanistan. Stiamo parlando di sottufficiali del Reggimento San Marco (non di educande), che hanno scelto di trascorrere sotto le armi la propria vita professionale. Eppure, pensando a loro e ai tanti altri militari italiani che in questi anni hanno partecipato a missioni militari all’estero, dovendo ricorrere all’uso della forza tutte le volte che si è reso purtroppo necessario, dobbiamo constatare come nessuno di loro sia mai risultato coinvolto in episodi degradanti. Non credo a causa di un’indimostrabile attitudine antropologica degli italiani "brava gente", bensì come conseguenza dell’addestramento ricevuto. Perché solo attraverso l’addestramento è possibile ottenere con più alta probabilità che certi comportamenti non diventino un’eccezione troppo ricorrente.
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