Primo: meno disuguaglianze
venerdì 17 aprile 2020

Dalle sfere d’influenza geopolitica alle abitudini di consumo, lo stiamo oramai metabolizzando, terminata anche la “fase due” nulla sarà come prima. Per certi aspetti, tuttavia, potrebbe essere meglio di prima. La pandemia è una rivoluzione per i sistemi economici e sociali perché cambia i paradigmi. Quel semplice e gesto di alzare la mascherina sul volto ci accompagnerà a lungo e avrà un impatto radicale ridefinendo aspettative, dinamiche relazionali e meccanismi di produzione. In tal senso può rappresentare un’occasione per costruire un modello di crescita meno sbilanciato. Prendiamo il fenomeno delle disuguaglianze: in numerose e diverse società – e a diversi gradi di sviluppo – la stabilità ha avuto paradossalmente l’effetto di aumentarle. Così è stato anche nelle democrazie contemporanee alimentate dal capitalismo finanziarizzato dell’ultima fase di globalizzazione. A ridurre le distanze tra ricchi e poveri, nel corso della storia, ci hanno pensato invece gli choc violenti. E dei quattro cavalieri del livellamento, così li ha chiamati lo storico Walter Scheidel, le epidemie si sono rivelati i più letali.

Il loro effetto di distruzione della ricchezza, a lungo termine, è stato più potente di quello di guerre, rivoluzioni trasformative e crolli dello Stato (gli altri apocalittici livellatori). Ma hanno ricacciato tutti, i primi e gli ultimi, in condizioni peggiori rispetto a prima. All’inizio, certo, anche il Covid–19 alimenta diseguaglianza: lo fa direttamente, per il diverso impatto fra blocchi sociali, e di sponda, attraverso le misure di contenimento che discriminano fra soggetti economici. Le conseguenze in prospettiva, però, sono un dato di cultura, non di natura: se riusciremo cioè a ricostruire una società più inclusiva e meno diseguale dipenderà dalla risposta politica – la reazione della polis – al trilemma lavoro–ambiente–salute che questa epidemia impone con toni apodittici su scala globale. E la cui soluzione richiede di cambiare in profondità il nostro modello di sviluppo. Gli antivirus già ci sono, la terapia l’ha indicata da tempo papa Francesco nella Laudato si’.

Per l’Italia, senza scelte adeguate, si potrebbero allargare purtroppo in tempi brevi almeno tre forbici. La prima è la distanza con gli altri Paesi d’Europa. Negli ultimi vent’anni anni si è già paurosamente allungata: ci piazzavamo a un livello di reddito pro capite superiore alla media, ci ritroviamo oggi ben sotto quella soglia. Perché la nostra crescita non è sostenibile anzitutto in rapporto a quanto e come spendiamo. Non è certo colpa della moneta comune, ma di eredità pesanti del passato recente, a partire dal debito e dall’enorme evasione fiscale. È il frutto avvelenato di scelte sbagliate o mancate nella destinazione della spesa pubblica, soprattutto di quella in conto capitale e cioè per investimenti. La bulimia legislativa che ha portato all’eccesso regolatorio, l’inefficienza della Pubblica amministrazione e il crollo della produttività per troppe imprese, fatte salve quelle competitive anche sui mercati internazionali, hanno fatto il resto.

Dall’Europa, checché se ne dica, non mancheranno le risorse per noi. Centinaia di miliardi di euro, direttamente o indirettamente grazie agli interventi della Bce. I prestiti del Mes, al quale non intenderemmo accedere preferendo ulteriore deficit, altro non sono che Coronabond. E l’unica condizionalità (se resisterà, e i francesi già dicono di no) è – pensate un po’ – quella di spendere i soldi contro il virus: in ospedali, ricerca, dispositivi di protezione. Spetterebbe a noi spenderle con intelligenza e non, come abbiamo spesso fatto, in ottica clientelare e in chiave elettorale, aumentando così ulteriormente l’indebitamento e pretendendo che a pagare siano altri.

Dovrebbero essere proprio queste le risorse da destinare a una resilienza trasformativa in grado di cambiare il modello mirando alla coesione. Ci sono poi le disuguaglianze tra i tanti Nord e Sud che attraversano lo Stivale, non solo longitudinalmente: i divari tra le grandi aree urbane e le periferie della globalizzazione, quelle tra i nuovi distretti industriali inseriti nelle catene globali del valore e le aree depresse. E quelle tra i protetti per salario o rendite e in non protetti da alcunché: sarà difficile non immaginare strumenti complementari al debito dello Stato per far confluire l’enorme ricchezza finanziaria privata in forme di investimento pubbliche o per il trasferimento di reddito tra categorie altrimenti destinate a subire ulteriore distanziamento. E in tal senso non è da escludere nemmeno qualche forma di patrimoniale progressiva (e auspicabilmente orientata a obiettivi ben verificabili, tipo l’abbattimento del debito), altrimenti le finanze pubbliche, con o senza Mes, in breve tempo salteranno.

C’è infine il serio rischio che aumenti il divario digitale, separando irrimediabilmente connessi e italiani offline. Lo abbiamo visto in questi giorni quanto destabilizzi tale distanziamento tecnologico con milioni di studenti che non riescono a essere integrati nel diritto fondamentale allo studio e, per i più piccoli, all’esercizio primario della socialità. Nonostante lo sforzo e i successi di molte scuole, infatti, ci sono ancora troppe strutture e non pochi insegnanti che non ce la fanno a gestire una didattica virtuale. Per non parlare di quei cinque milioni di micro–imprese su sei che non sono ancora in grado di aprire il cassetto digitale da tempo messo loro a disposizione. La fase della ricostruzione, pertanto dovrà contemplare la necessità che molti soldi vadano spesi – leggi investiti – nelle infrastrutture digitali e in formazione.

Le tessere da comporre nel nuovo puzzle sono tante e in molti casi sempre le stesse. Gli anticorpi per ciascuna delle menzionate diseguaglianze virali pure. Perché questa volta la pandemia non le accentui invece di attenuarle, è soprattutto necessario combinare le tante forme di ricchezza di cui disponiamo nella dimensione vitale del territorio. Proprio dove pubblico e privato – se n’è avuta prova nelle ultime settimane con le centinaia di iniziative congiunte – interagiscono di fatto favorendo la coesione. Ma bisogna anche saper coinvolgere il capitale sociale e relazionale del Non profit, in questa prima fase dell’emergenza colpevolmente sottoutilizzato: la comunità può essere davvero il terzo pilastro tra Stato e mercato per dare maggior equilibrio alla ricostruzione.

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