Più politica e meno armi: di questo c’è bisogno per fermare la guerra. Invece, si sono moltiplicate le grida di “più armi in Europa”. Anche dai vertici dell’Unione europea. Ma la storia dell’Europa unita insegna altro. I padri fondatori hanno prima realizzato la scelta altamente simbolica di unificare la produzione del carbone e dell’acciaio da parte degli ex nemici Francia e Germania (Ceca), e poi hanno proposto la Comunità europea di difesa (Ced) quale via per l’unificazione politica. Un esercito comune, infatti, significa un’unica politica estera e una corrispondente architettura politico-istituzionale. Sarebbe stato un passo decisivo verso un’Europa più forte e più democratica. Ma la Ced fu bloccata da sentimenti nazionalisti di italiani e francesi che, come spesso accade alle spinte nazionalistiche, non hanno fatto i veri interessi dei rispettivi popoli. Per rilanciare l’unità europea si imboccò successivamente la strada dell’integrazione economica, che dal Mercato comune (1957) ha portato all’euro (1992) e, più recentemente, al comune impegno contro il Covid, e infine al Pnrr, tutti passaggi di grande importanza. Ma la strada seguita per l’integrazione economica non basta quando si torna a parlare di difesa: in questo caso la via politica è imprescindibile.
Se oggi si imboccasse questa via – non poi così difficile da realizzare – anzitutto le armi in Europa, paradossalmente, diminuirebbero. Ce ne sono infatti troppe, ma poco efficaci, perché nelle mani di tanti eserciti nazionali inadeguati, singolarmente, ad affrontare i grandi pericoli del nostro tempo. E poi – altro paradosso – ce ne sarebbe meno bisogno. Si realizzerebbe, infatti, una grande novità politica ancora più importante, per la sicurezza degli europei e per la pace del mondo, della forza militare in quanto tale. Ci sono molti motivi per realizzare subito questo salto di qualità nell’unificazione europea. Un’Europa più forte cambierebbe gli equilibri nel mondo, con effetti immediati sulle guerre in corso. Influirebbe autorevolmente su proposte come quella di una conferenza di pace in Svizzera per l’Ucraina, rilanciata ora anche dalla Cina. Peserebbe di più anche in Medio Oriente. L’aumento della produzione di armi in Europa non fermerà i signori della guerra: solo la comparsa di un nuovo grande attore politico eserciterà su di loro un’efficace opera di dissuasione.
Questo tema dovrebbe essere al centro del dibattito politico. La drammaticità della guerra in Ucraina, le minacce russe, la tragedia del Medio Oriente e i conflitti in tante altre parti del mondo, oltre all’incognita delle elezioni americane, esigono dagli europei un’iniziativa forte e tempestiva. Recentemente, due voci hanno indicato strade opposte per fermare la guerra in Ucraina. Quelle di Emmanuel Macron, che ha detto di «non escludere» l’invio di soldati occidentali al fronte, e di papa Francesco, che ha parlato di «bandiera bianca» della pace per negoziati subito.
Naturalmente, se il presidente francese pensa davvero a un allargamento del conflitto, la sua proposta è da respingere nettamente: comporterebbe enormi pericoli. Ma lo stesso Macron ha aggiunto «non me lo auguro e non prenderò io l’iniziativa» e interpreti attendibili sostengono che le sue uscite vadano lette in chiave di “ambiguità strategica”: minacciare Putin per costringerlo a trattare. Sembrerebbe dunque che anche il presidente francese stia cercando il modo di far cessare la guerra, la priorità su cui ha ripetutamente insistito negli ultimi giorni il presidente Mattarella. In Europa, invece, è prevalso un senso comune che spinge a dire: né con Macron – fare sul serio è troppo rischioso – né con il Papa – non indeboliamo la retorica del sostegno all’Ucraina. Conclusione: non facciamo niente.
Ma l’immobilismo va sfidato. Le classi politiche devono essere chiamate a rendere conto del loro non fare. In Italia, il sistema proporzionale in vigore per le elezioni europee spinge le forze politiche a concentrarsi su come rubare voti agli alleati, così come il sistema maggioritario le spinge a stringere alleanze quantomai contraddittorie nelle elezioni politiche. Ma – alla luce di quanto sta succedendo nel mondo – tutto ciò appare desolate e surreale. La via della democrazia non passa per elezioni funzionali alla ripartizione di un piccolo potere ma attraverso un dibattito vero, serio, approfondito sulle grandi questioni del nostro tempo, al termine del quale soltanto è possibile ai popoli prendere in modo consapevole decisioni cruciali per il loro futuro.
Quando discutere delle grandi scelte che riguardano l’Europa se non durante la campagna elettorale per il nuovo Parlamento europeo?