Persona: abbandono o ripensamento?
domenica 11 giugno 2017

«Meurt le personnalisme, revient la personne», così Paul Ricoeur, uno dei filosofi ispiratori della proposta politica del neopresidente francese Emmanuel Macron, intitolava il suo articolo sulla rivista, fondata da Emmanuel Mounier, 'Esprit' nel primo numero del 1983. I personalismi passano, ma la persona resta il miglior referente per riconoscere e affermare la dignità dell’uomo. Per Ricoeur la morte dei personalismi segna la nascita e il ritorno della persona. Evidentemente sono proprio le diverse categorizzazioni e costruzioni concettuali dei vari personalismi che finiscono per oscurare e ideologizzare la persona. Liberare la persona dalle limitazioni e concettualizzazioni dei vari personalismi significa far emergere il valore e la dignità della persona.

A un esito contrario a quello di Ricoeur giunge Francesco D’Agostino in una sua riflessione proposta come editoriale su Avvenire di domenica 21 maggio. La pluralità dei personalismi viene considerata «confusione». Mounier, il fondatore del personalismo, va ricordato, non ha mai parlato del personalismo, ma dei personalismi, rispettando il pluralismo dei diversi cammini per affermare la dignità dell’uomo. Il personalismo soggettivistico «non considera 'persone' tutti gli esseri umani, ma solo quelli dotati di piena coscienza e di adeguato raziocinio». Il personalismo ontologicamente fondato, come quello ribadito dal pensiero cattolico, considera, invece, 'persone' tutti gli esseri umani e, contro ogni forma di razzismo e di discriminazione, attribuisce di conseguenza i diritti fondamentali a tutti gli esseri umani. Il risultato, oggi, di questa confusione, per D’Agostino, «è che 'persona' e 'personalismo' sono diventati termini ingombranti, che, anziché denotare con precisione un univoco orizzonte di pensiero, lo complicano, favorendo ambiguità ed equivoci». Perciò suggerisce: nella bioetica, nel diritto, nella politica, anziché utilizzare questi termini, «impariamo a dire fratelli». E questo è il titolo che il direttore di Avvenire ha deciso di dare al quell'articolo. Il termine 'fratello' denota davvero un univoco orizzonte di pensiero ed elimina ambiguità ed equivoci? Non era forse in nome della fraternità, oltre che della libertà e dell’uguaglianza, che Robespierre ghigliottinava quelli che non la pensavano come lui? Non è forse in nome di una fratellanza limitata al proprio gruppo di appartenenza che si procede a eliminare gli infedeli nell'attuale terrorismo? Quanti crimini sono stati commessi in nome della giustizia, della libertà, di Dio stesso, ma non per questo tali valori sono stati abbandonati o destituiti della loro importanza.

A differenza della nozione di coscienza, soggetto, io, individuo, la nozione di persona è riuscita a sopravvivere e a resistere alla decostruzione antropologica in atto nella nostra cultura, che ha scosso dalle fondamenta quella che sembrava la fortezza dell’identità personale e che rischia di ridurre l’uomo ad apparenza e di non far rimanere nell'individuo più nulla che sia suo. La persona si è rivelata essere una feconda matrice filosofica per impegnarsi nella causa del rispetto e della promozione dell’essere umano e per realizzare quella rivoluzione ontologica, spirituale e anche economica e sociale, che consenta, nel suo progetto globale di civiltà, all'uomo di essere sempre più uomo. Va, inoltre, ribadito che la persona non è un oggetto, una res, non si può definire. Se noi la definiamo, dobbiamo immediatamente modificare la nostra definizione, perché la coscienza di tale definizione la modifica. È l’essenza e l’interezza dell’uomo in tutte le sue dimensioni (fisiche, psichiche, spirituali, relazionali). La persona è «movimento d’essere verso l’essere, e non è consistente che nell’essere cui tende» (Mounier). La persona non è un puro essere, è esse ad, essere in relazione con e per l’altro, La persona è «aessere »; «la sola maniera di accedervi è di 'farla essere'; in linguaggio kantiano la persona è una maniera di trattare l’altro e di trattare se stessi» (Ricoeur). «Ciò che non è persona in fondo non è nulla», ha scritto nelle sue fulminanti annotazioni Nicolas Gomez Davila. La persona è fine in sé, è l’uomo in tutta la pienezza e dignità e quindi non è manipolabile né riducibile a mezzo e a merce di scambio. Il termine persona non è ambiguo né equivoco, è plurivoco, come l’essere, si dice in molti modi, esprime tutta la ricchezza dell’umano, che nessun personalismo e nessuna antropologia riuscirà mai a dire.

La deriva individualistica, giustamente criticata da D’Agostino, non appartiene ed è completamente estranea alla tradizione personalista. Come ha giustamente affermato Giorgio Campanini in un editoriale di replica pubblicato il 26 maggio su Avvenire, il personalismo «è strutturalmente una filosofia della relazione, dell’incontro, del dialogo, un insieme di diritti e di doveri». Non solo l’individuo, che è l’essere umano concepito in sé nella sua irrelazione, non è la persona, che è l’essere umano concepito nel suo essere in relazione con e per l’altro, ma addirittura l’individualismo, come il collettivismo, è proprio il contrario del personalismo. Mounier stesso augurava al suo personalismo di confondersi a tal punto con il corso quotidiano della vita, dopo aver risvegliato nell’umanità «il senso totale dell’uomo», da scomparire «senza lasciar traccia». Tramontano i vari personalismi, ma la persona ritorna. Credo che in bioetica, in politica, nel diritto, nell’educazione, nell’economia, abbiamo ancora bisogno non solo del termine persona, ma anche del nostro impegno quotidiano per promuovere la persona nei vari contesti esistenziali.

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