Perché l'economia di Adamo non è l'economia di Caino
sabato 20 febbraio 2021

I principali protagonisti del grande cambiamento che lo "spirito" economico europeo subì tra il Duecento e il Trecento furono i francescani e i domenicani, che trasformarono l’immagine del mercante da nemico del bene comune a suo primo edificatore. Dal cuore delle città i Mendicanti videro cose diverse da quelle che si vedevano dalle verdi valli delle abbazie. Videro che il lavoro buono non era solo quello dei monasteri, e che il tempo santo non era solo quello liturgico, perché c’era anche una santità nel tempo di tutti, e la campana laica delle torri comunali non era meno nobile e cristiana della meridiana dei monaci. Osservando i tempi e i giorni degli artigiani, degli artisti e dei mercanti, scoprirono un altro ora et labora, diverso ma non inferiore a quello dei monasteri. E nacque "fratello lavoro". L’Umanesimo e il Rinascimento fiorirono da questo continuo dialogo-dialettica tra un cielo importantissimo e una terra importante, tra un al-di-là presentissimo e un al-di-qua presente, tra l’attesa del non-ancora e l’impegno per il già.

Il lavoro-vocazione non uscì dai monasteri solo con la Riforma protestante, perché era già uscito nel Duecento grazie all’opera degli ordini mendicanti. Che non furono importanti per la nascita della nuova economia soltanto in quanto confessori, predicatori e pastori di mercanti e artigiani. Lo furono anche, e forse soprattutto, come teologi. Tra i maggiori troviamo Duns Scoto, il grande francescano scozzese, magister a Oxford, Cambridge, Parigi e Colonia. Un genio di valore assoluto, uno dei più grandi talenti che abbiano mai attraversato la teologia e la filosofia. Scoto (1265/1266-1308) si occupò anche di economia – il Medioevo era questo: i grandissimi si interessavano di Trinità e di moneta, perché sapevano che dopo il Verbo fatto carne una quaestio sul giusto prezzo aveva la stessa dignità teologica di una sulla redenzione.

Nel suo Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, noto come Ordinatio (1303-1304), leggiamo: «La modalità di scambio è quasi fondata sulla legge di natura: fai all’altro quello che vorresti fosse fatto a te» (citato in Leonardo Sileo, Elementi di etica economica in Duns Scoto, p.6). Scoto qui legge la versione della "regola aurea" dei Vangeli (Mt 7,12 e Lc 6,31) come regola della socialità economica. La reciprocità nello scambio commerciale è vista come un modo in cui si esprime la reciprocità evangelica. A quei primi osservatori qualificati il mercato non appariva soltanto come una nuova forma di relazionalità civile, ma anche come una nuova concretizzazione della legge dell’amore scambievole. Infatti, nella sua natura, lo scambio di mercato può essere visto come una forma di "mutua assistenza", come ripeterà nel Settecento Antonio Genovesi, dove le persone tramite i beni soddisfano ciascuno i bisogni dell’altro. Se noi fossimo capaci di guardare dall’alto e con sguardo non ideologico ciò che avviene nei mercati del mondo – e lo sguardo di quei primi teologi era un po’ così –, vedremmo un immenso, densissimo network di relazioni che consentono alle donne e agli uomini di ottenere le cose di cui hanno bisogno; e che in assenza dei mercati potrebbero ottenere solo col dono o con la rapina, il primo troppo scarso e la seconda incivile.

Quei francescani, mentre custodivano per loro stessi il "prestigio pauperistico" e osservavano il divieto assoluto di maneggiare denaro, si trovavano nella giusta distanza spirituale dai mercati e dalle ricchezze per capirle e spiegarcele nella loro essenza. Lo sguardo positivo e generoso sul loro mondo non ignorava la triste sorte di coloro che erano esclusi da quella rete di scambi reciproci, e per i quali i Mendicanti si adoperavano dando vita a mille iniziative di assistenza; erano però capaci di non leggere lo scambio di mercato come nemico dei poveri, ma come opportunità per tutti. Tanto che Scoto arriva a consigliare ai prìncipi di città con pochi mercanti di fare di tutto per attrarli: «In un paese indigente di mercanti, un buon legislatore dovrebbe attrarre mercanti, anche pagandoli molto, e trovare il sostentamento necessario anche per la loro famiglia» (Ordinatio, IV).


La stima teologica dei poveri francescani e domenicani per i mercanti nasce dalla loro vita nel cuore delle città e si unisce all’idea del limite della proprietà privata


Su questa stessa linea si muove il francescano catalano Francesc Eiximenis (1330-1409), studioso e seguace di Duns Scoto. Il libro Dodicesimo (Dotzè) della sua summa, Il cristiano (Crestià, nella sua lingua), scritto tra il 1385 e il 1392, contiene un’ampia e originale trattazione sull’economia politica e sulla moneta, dove la funzione di civilizzazione del mercato – la civilitas – è sviluppata e rafforzata. Qui vi troviamo concetti estremamente importanti e originali. Uno di questi tocca il pilastro di ogni etica economica civile, cioè il conflitto tra rendite e profitti: «Deve essere vietato comprare rendite perpetue e vitalizie a tutti coloro che possono svolgere attività mercantili», poiché le rendite distruggono i guadagni buoni e civili dei mercanti, essenziali per la comunità. La competenza che i mercanti hanno con le «parole e i contratti», la loro arte discorsiva e relazionale favorisce «ogni sorta di relazione qualificata e amichevole» (I,1). Ecco perché Barcellona (da lui vista come civitas perfecta) non deve «promuovere eccessivamente le cariche onorifiche», ma incoraggiare lo sviluppo della classe mercantile. Sul lato opposto a quello del mercante, si trova l’"uomo avaro", che è il primo nemico della città, perché impedisce alla moneta di circolare e diffondere sviluppo e civiltà: «Non deve avere il diritto di abitare in città, né per alcuna ragione gli deve essere concesso di rivestire incarichi e uffici della comunità, in quanto egli è dissipatore della civilitas, integrale nemico della verità, falsificatore dell’amicizia» (I,1). Interessante notare che qui l’avarizia è vista come il vizio dei percettori di rendite, non come malattia dei mercanti.

I mercanti, afferma Eiximenis riprendendo una tesi di Ugo di San Vittore, devono essere premiati, perché sono «la vita della terra, il tesoro della cosa pubblica. Senza mercanti le comunità cadono, i prìncipi si fanno tiranni. I mercanti soltanto sono grandi elemosinieri, padri e fratelli della cosa pubblica e Dio mostra in loro grandi meraviglie» (Regiment de la cosa pública, citato nell’Introduzione all’edizione critica dell’opera, a cura di Paolo Evangelisti).
Molto interessanti sono poi le sue molte pagine sulla moneta, prezioso bene pubblico e "bene della comunità", primo segno della fiducia pubblica ed essenziale per tutti i patti sociali, simbolo della communitas, della commutatio (scambi) e della communicatio (comunicazione) tra i cittadini. Importanti anche i suoi ragionamenti sul credito e sulla funzione del debito pubblico – purtroppo viziati da una polemica anti-giudaica, che accomuna molti francescani del tempo (e non solo loro). La sua enfasi è posta sull’urgenza di far nascere istituzioni di credito civile, in particolare di una "casa de la comunitat", anticipatrice dei Monti di Pietà del secolo successivo e delle Banche rurali e cooperative del XX secolo. Un’istituzione destinata a giovani poveri che grazie al credito potevano iniziare una vita produttiva, o a ragazze prive di dote, anticipando il "Monte delle doti" di Firenze del 1425. Ma anche «al riscatto dei prigionieri, al recupero degli uomini caduti in rovina, ai carcerati in condizione di povertà» (Dotzè, I, 1).

Mentre restiamo colpiti e incantati dalla stima e dall’ammirazione che questi teologi dell’altissima povertà avevano per il ruolo civile dei mercanti, della moneta e del credito, anche questa volta veniamo colti di sorpresa da altre tesi di questi stessi autori, che complicano il discorso e ci riportano dentro l’ambivalenza generativa del Medioevo.
Una, molto importante, riguarda l’origine e la natura della proprietà privata. In Duns Scoto leggiamo: «Quando incominciarono a venire distinte le proprietà delle cose in modo che questo venisse detto "mio" e quello "tuo" e come è sorta tale distinzione? Per legge di natura non è affatto stabilito che il possesso delle cose sia distinto giacché nello stato di innocenza non vi era affatto tale distinzione sul possesso e la proprietà delle cose ma tutto era comune a tutti» (Reportata parisiensia, citata in Francesco Bottin, Giovanni Duns Scoto sull’origine della proprietà).

Siamo da poco usciti da quel mondo di mercanti costruttori di civilitas e di carità cristiana, e ci imbattiamo in una visione della proprietà privata dei beni, colonna di quella economia di mercato, come frutto del peccato. Per Scoto, qui in linea con molta teologia medioevale, nell’innocenza primordiale, cioè nella condizione adamitica, la regola era la comunione dei beni, non esisteva il "mio" e il "tuo" – e l’unico "nostro" coincideva con quello dell’umanità intera, che comunque non si sentiva padrona dei beni ma solo utilizzatrice. Non dobbiamo chiaramente intendere la condizione adamitica in senso storico o cronologico (non avrebbe molto senso parlare di comunione in un Eden con il solo Adamo, e neanche con Eva), ma in senso teologico e antropologico. Tenendo sempre presente che nella visione biblica ciò che viene prima è più vero e più profondo di quanto viene poi, perché esprime vocazione e destino, e quindi indica ciò che un giorno sarà o potrà essere. Quando Scoto dice che la proprietà privata nasce dopo il peccato ci sta allora dicendo qualcosa di importante, cioè che l’appropriazione privata dei beni non era nel disegno originario di Dio sull’umanità. È stata una deviazione, una corruzione, un decadimento, un errore. «In principio non era così». Perché nell’immagine e somiglianza con Dio c’è dentro la comunione dei beni. Quella del "mio" e del "tuo" non era l’economia dell’Adam, è diventata l’economia di Caino. E come sarà l’economia del nuovo Adam?

Molto interessante è infine la funzione che Scoto attribuisce alla proprietà privata, una volta che gli uomini decaduti col peccato non possono più farne a meno: «Ciò divenne necessario allo scopo di mantenere la pacifica convivenza tra gli uomini giacché dopo la colpa i malvagi avrebbero preteso per sé le cose non solo per il proprio uso indispensabile ma anche per saziare la loro cupidigia di possesso». La proprietà privata è protezione della pace, è garanzia per Abele contro gli abusi di Caino, ha la sua ragione nella protezione dei deboli dalla forza dei forti che tenderebbe ad accrescere a dismisura il loro "mio" senza riconoscere il "tuo". Allora la proprietà privata è giusta se difende soprattutto ciò che è "tuo", in particolare il "proprio" dei poveri.


La proprietà privata è giusta se è protezione della pace, garantendo Abele, cioè difendendo prima del "mio" il "tuo", specie ciò che spetta ai poveri


È allora molto francescana la tesi che ritroviamo nella Fratelli tutti: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati» (n.120).
I grandi teologi medioevali ci ricordano che il nostro destino, anche economico, è la comunione. Noi non riusciamo a essere all’altezza della nostra vocazione, e ci accontentiamo dell’economia del "mio" e del "tuo". Ma è quell’Adam, che in noi viene prima ed è più profondo di Caino, che continua a non darci pace, e ad alimentare quella infinita nostalgia di un’altra economia.

l.bruni@lumsa.it
(16 - continua)


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