venerdì 14 ottobre 2022
Le violazioni agli accordi internazionali sono funzionali a un uso dell’uranio per scopi militari. E le misure per impedire questa deriva servono agli ayatollah per giustificare la crisi economica
L'impianto nucleare di Bushehr, in Iran

L'impianto nucleare di Bushehr, in Iran - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Il dibattito nucleare è sempre al centro dell’attenzione nelle diplomazie mondiali. Dopo gli eventi legati alla gestione della centrale ucraina di Zaporizhzhia è stata la volta dello scontro sul programma iraniano. Nel 2015 sembrava che Teheran, i cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu e l’Unione europea avessero trovato un accordo con la firma del Piano di azione onnicomprensiva congiunto (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa). Secondo questa intesa, ratificata nella Risoluzione 2231 dell’Onu, l’Iran acconsentiva di eliminare e smettere di produrre uranio arricchito al di sopra del 3,67%, distruggere i due terzi delle centrifughe utilizzate per l’arricchimento e interrompere la costruzione dell’impianto di acqua pesante per produrre plutonio-239, isotopo utilizzato per la costruzione di ordigni nucleari. Al fine di verificare che gli accordi fossero rispettati, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea) avrebbe avuto via libera per ispezionare qualunque sito nucleare iraniano. Nel frattempo, gli Stati Uniti e l’Unione europea avrebbero varato un piano di aiuti per rilanciare l’economia iraniana.

Già nel 2016, però, con i test missilistici capaci di trasportare testate nucleari condotti da Teheran, iniziarono ad emergere le prime violazioni del Jcpoa. La situazione precipitò alla fine d’aprile del 2018, quando Israele e Stati Uniti, anticipando quello che verrà confermato anche dall’Iaea nel marzo 2021, denunciarono che Teheran stava continuando il suo programma nucleare in luoghi non dichiarati. Una settimana dopo, Trump dichiarò il ritiro di Washington dallo Jcpoa. Da quel momento, mentre l’Iran violava altri numerosi punti degli accordi, gli Stati Uniti uccidevano il generale Qasem Soleimani, eroe della guerra contro l’Iraq e braccio destro dell’ayatollah Ali Khamenei aumentando la tensione tra le due capitali. Per rappresaglia, Teheran organizzò, tramite il gruppo armato yemenita Houthi, una serie di attacchi missilistici compiuti a impianti petroliferi e ad aeroporti dell’Arabia Saudita, fedele alleata di Washington. I raid vennero compiuti con droni iraniani, gli stessi oggi in dotazione nelle forze russe in Ucraina e portarono il segretario dell’Onu, António Guterres, ad accusare l’Iran di essere il mandante delle incursioni.

Nel frattempo, l’isolamento a cui è stata relegata la nazione medio orientale da parte dell’Occidente e le sanzioni imposte da Trump e aggravate da Biden hanno contribuito al deterioramento di una situazione economica già difficile per gli 85 milioni di iraniani. All’interno di questa cornice, tra il novembre 2021 e il febbraio 2022, l’Iran ha chiesto all’Unione europea di mediare con gli Stati Uniti per riportare in vita il Jcpoa. La crisi del gas, lo scoppio della guerra in Ucraina hanno indotto Biden ad accettare l’invito di sedere al tavolo delle trattative sperando così di poter sbloccare l’immissione di un milione di barili di petrolio greggio al giorno provenienti dal sottosuolo iraniano evitando, al contempo di spingere gli ayatollah tra le braccia di Putin. L’Iran mise subito in chiaro che i punti per esso essenziali per riconfermare l’accordo del 2015 erano, oltre alla revoca delle sanzioni, il depennamento dei membri dei Corpi di Guardia rivoluzionaria, politici, uomini d’affari e funzionari dalla lista nera stipulata dal Dipartimento di Stato Usa.

L'8 giugno 2022, però, l’Iaea ha rilasciato un rapporto in cui si affermava che già dal marzo 2021 l’agenzia aveva scoperto l’esistenza di quattro siti nucleari non dichiarati (Lavisan-Shian, Marivan, Varamin e Turquzabad), in tre dei quali sono state rilevate particelle di uranio di origine antropogenica la cui provenienza rimane ancora oggi oscura e a cui le autorità iraniane non hanno mai voluto dare spiegazioni tecnicamente credibili. Il giorno dopo la rivelazione, l’Iran ha rimosso 27 telecamere di sorveglianza che permettevano agli ispettori di monitorare da remoto tutte le operazioni compiute nelle aree più sensibili dei siti nucleari iraniani. A questo si aggiungeva anche il fatto (confermato dalle stesse autorità di Teheran), che l’uranio arricchito prodotto dall’Iran aveva ormai ecceduto di parecchie volte la quantità stabilita dagli accordi del 2015.

Queste azioni, secondo l’Iaea sarebbero il segno che l’Iran si sta preparando a potenziare il suo programma nucleare orientandolo verso attività militari. Sebbene la quantità di uranio arricchito al 90% (la percentuale minima richiesta per un ordigno nucleare) disponibile nei magazzini iraniani sia ad oggi sufficiente per preparare una sola bomba nucleare, la nazione si è nel frattempo dotata di centrifughe molto più avanzate di quelle stabilite dall’accordo del 2015 che potrebbero accelerarne la produzione. Ma anche in questo caso l’Iran non potrebbe realizzare una bomba: oltre all’uranio-235 al 90-95% occorre avere ingenti quantità di plutonio (che i militari potrebbero aver prodotto dal reattore ad acqua pesante Arak), e possedere una serie di impianti tecnologici avanzati (che l’Iran sta allestendo con l’aiuto della Corea del Nord). Tutto questo però richiederà anni prima di poter essere approntato e praticabile. Con queste premesse, quando si è prospettata la possibilità di riesumare il Jcpoa, l’Iaea ha quindi chiesto che un nuovo accordo dovrebbe prevedere misure aggiuntive di controllo dell’intero apparato nucleare, ma, come ha confidato Mariano Grossi in un’intervista a “El Pais”, anche se il Jpcoa venisse firmato «avrà comunque basi molto fragili». E infatti la prospettiva di un nuovo accordo, dopo aver preso piede tanto da essere data quasi per certa, si è arenata in una serie di impasse. Biden, oltre a non voler alleggerire le sanzioni, non ha accettato la richiesta di “bruciare” il libro nero che vietava l’entrata negli Usa di elementi vicini al governo di Teheran, mentre da parte sua l’Iaea non ha accettato la richiesta iraniana di “dimenticare” la richiesta di chiarimenti sulle tracce di uranio trovati nei siti non dichiarati.

Ma forse è stato lo stesso Iran a non volere che il trattato sul nucleare possa essere rimesso in moto. In un contesto così delicato, dove al collasso economico si innestano sempre più frequenti rivolte sociali, con manifestazioni popolari che stanno mettendo a dura prova il regime. Come spesso accade, trovare capri espiatori esterni su cui far defluire le contestazioni interne è uno dei modi più collaudati per puntellare il regime. Teheran ha quindi buon gioco nell’addossare alle sanzioni la responsabilità della crisi che da decenni ormai impoverisce milioni di iraniani. Tutti però sanno che le cause della recessione non sono dovute solo agli embarghi voluti dagli Usa, ma anche alla corruzione, allo sclerotico sistema creato dagli ayatollah e da politici succubi e consenzienti e a un regime che fa fatica ad adattarsi ai cambiamenti economici strutturali e sociali richiesti in questo nuovo periodo...

Togliere le sanzioni non risolverebbe la situazione iraniana, ma potrebbe scoperchiare un vaso di Pandora capace di mettere a dura prova il regime. E in questa prospettiva forse la recente rottura degli accordi Jcpoa non sono dovuti solo ad un dissapore tra Usa e Iran sui punti di disaccordo, ma forse sono proprio gli ayatollah che, timorosi di mostrare la vera natura della crisi, preferiscono continuare a far subire al popolo le sanzioni.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: