Le cancellerie di tutto il mondo sono ormai convinte che l’invasione russa dell’Ucraina comporti una rottura strutturale, destinata a cambiare gli assetti geopolitici mondiali. Ridefinendo ciò che abbiamo pensato negli ultimi decenni col nome di «globalizzazione». Proprio su questa tematica si è concentrato l’importante discorso della ministra degli Esteri Liz Truss al Parlamento inglese di qualche giorno fa.
Un vero e proprio testo programmatico, che coglie il nodo centrale portato alla ribalta dalla guerra in Ucraina. In sostanza, Truss afferma che è finito il tempo in cui è possibile godere dei benefici del libero scambio senza pagare un prezzo. Guardando avanti, è necessario definire le regole da rispettare se si vuole far parte nel 'club della prosperità'. A partire da Stato di diritto, democrazia, libertà individuali, sostenibilità. «L’accesso all’economia globale deve dipendere dal rispetto delle regole. Non ci possono essere più abbonamenti gratuiti», afferma la ministra inglese.
Si tratta di un’idea fondamentale: come non essere d’accordo con l’obiettivo di creare un contesto globale di libero scambio equo? Una globalizzazione sregolata, nella quale ognuno può trarre i benefici che vuole senza sentirsi impegnato alle regole della convivenza umana, è destinata – come possiamo ormai vedere con chiarezza – a generare disastri. Proprio l’interconnessione globale comporta la responsabilità di tutti e la definizione di una serie di impegni. L’economia da sola non basta.
Il problema è che questa dichiarazione giunge tardiva: nonostante la prosperità e le tecnologie di cui dispone, il mondo che abbiamo costruito è travolto da una quantità di questioni che non sappiamo più come affrontare: cambiamento climatico, migrazioni, instabilità politica, disuguaglianze, fondamentalismi, etc.
Per citare un vecchio adagio popolare, oggi ci troviamo a dover «chiudere la stalla quando i buoi sono scappati». Si pone, dunque, la domanda: come è possibile raggiungere il risultato di cui parla la ministra inglese nella situazione nella quale ci troviamo?
Sarebbe un grave errore se l’Occidente pensasse di avere tutto il mondo schierato dalla propria parte. La contrapposizione tra democrazie e autocrazie di cui molti parlano traccia un discrimine molto più articolato di come si tende a credere. Nelle ultime settimane, 132 Paesi hanno votato a favore delle sanzioni nei confronti della Russia. Ma, in termini di popolazione – come ha fatto puntualmente rimarcare la propaganda russa, ma anche gli analisti più attenti – si tratta di meno della metà della popolazione mondiale.
Nelle discussioni e nelle prese di posizione sulla questione ucraina, in Asia, Africa e persino Sudamerica è affiorato il risentimento maturato nei confronti di una globalizzazione spesso ingiusta. All’Occidente si rinfacciano pratiche di sfruttamento, la miope politica tenuta nella vicenda vaccini, i gravi errori (bellici e no) commessi in diverse regioni del mondo.
Rispetto a trent’anni fa, all’alba della «globalizzazione», l’Occidente oggi fa più fatica a essere riconosciuto come il difensore della libertà e dell’interesse di tutti. In un certo Occidente, oggi, sembra prevalere l’idea che la guerra debba essere vinta in modo da fermare le autocrazie e dettare così le condizioni della 'nuova globalizzazione'. Ma come è evidente che Vladimir Putin non potrà vincere la guerra – impossibile nel XXI secolo sradicare un popolo di 44 milioni di persone – allo stesso modo risulta difficile immaginare che l’Occidente possa sconfiggere il tiranno russo umiliandolo sul campo.
Anche perché, prima di arrivare a un tale esito, Putin deciderebbe di giocare nell’unico terreno su cui è veramente forte: quello nucleare. Preferendo un salto di scala alla propria definitiva disfatta. Tutto ciò porta a una conclusione: se, come oggi è evidente, la guerra aperta iniziata il 24 febbraio comporterà una ristrutturazione dei rapporti internazionali, è difficile pensare di raggiungere tale risultato senza passare da una vera negoziazione multilaterale. Che è poi quello che ha suggerito il presidente del Repubblica Mattarella evocando lo «spirito di Helsinki» (e non «di Yalta »). Per provare ad aprire di nuovo il futuro, occorre una Conferenza internazionale di pace. Che aiuti a trovare una composizione sull’Ucraina, anche nel quadro dei temi generali posti dalla ministra inglese. Negli anni 90 del Novecento si parlò e si agì per «esportare la democrazia», e fu un fallimento disastroso.
Oggi si tratta di scrivere nuove regole della convivenza globale. E sarebbe altrettanto fatale pensare di arrivarci attraverso l’uso della violenza. È solo l’arte difficile ma lungimirante del dialogo – che comporta anche il contrasto ben proporzionato a chi il dialogo non lo vuole, come in questo momento Putin – che va coltivata. Ed è l’unico realismo sensato in questo delicato passaggio storico.