sabato 12 marzo 2016
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«Dopo tre papi sono il primo che non ha partecipato al Concilio e si è formato nel Concilio. Me ne andrò quando si arriverà a un punto in cui non sarà più possibile tornare indietro». In questa considerazione espressa da Papa Francesco si concentra tutta la portata del suo magistero. Per il primo Papa ad essere stato ordinato prete dopo il Concilio, esso è tale per essere vissuto nel suo insieme. Ne è figlio e come tale semplicemente lo incarna. «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che viene dallo stesso Vangelo» aveva spiegato già nel primo anno del suo pontificato. Da qui ha spalancato, in un continuo e permanente ex itinere, un’epoca immensa, di rifondazione, di «ressourcement», di risalita alle sorgenti, all’origine dell’identità cristiana, di evangelica semina a favore dell’umanità. Da qui ha impresso un’epoca di rinnovato coraggio e speranza che è inversamente proporzionale al breve tempo trascorso fin qui del suo pontificato. In questi tre anni ha aperto e riaperto porte. E continuerà a farlo nello spirito e nella via tracciata dal Concilio, andando avanti nel traghettare la Chiesa verso il cristianesimo, verso il Vangelo. E se il Concilio è stato prima di tutto «un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo, un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa»; se è stato la sede in cui la Chiesa ha scelto «la medicina della Misericordia», a partire dalla Lumen Gentium, e dalla Gaudium et spes Francesco ha fatto proprie alla lettera quelle che erano state le sue finalità: il rinnovamento e la missionarietà della Chiesa nella povertà e nella sinodalità, la ricomposizione dell’unità dei cristiani, il dialogo con il mondo contemporaneo, il dialogo interreligioso e la ricerca della pace. Sono esattamente queste le vie che sta percorrendo, andando avanti. E chiamando tutti alla conversione, con l’esempio, con i gesti e con la predicazione, continua mostrare che su queste vie si gioca la credibilità del cristiano. Liberando il campo da deviazioni ideologiche ridefinisce così anche la sostanza delle parole che fanno la vita del cristiano e della Chiesa. E quelle che non la fanno. Fanno e edificano la Chiesa la missione e la misericordia che ne è il midollo. La povertà evangelica che è il contrario della mondanità e porta all’apostasia, quel «darsi gloria gli uni e gli altri», lebbra e veleno che deturpano il volto della Sposa di Cristo a cui è connessa la corruzione. È Chiesa la carnalità e il respiro dato al dialogo, alla cultura dell’incontro, alla prossimità, alla solidarietà. Sono la sua cifra connaturale che mostra come al contrario l’esclusione, l’egoismo, i muri, la cultura dello scarto non appartengono al suo Dna. Francesco ha fatto così comprendere come proprio il rimanere fedeli a Cristo implica un’uscita e alla Chiesa sia confacente, come «dimensione costitutiva», la sinodalità e non l’egemonia, non «gli sterili club di interessi o di consorterie», o il carrierismo. Così la ricerca dell’unità dei cristiani, non la chiusura farisaica, non l’autoreferenzialità, o il rigorismo, le tentazioni del pelagianismo e dello gnosticismo, o la maldicenza che uccide. E come a fare la Chiesa sia il servizio, non il clericalismo. Quel servizio a cui tutti siamo chiamati e che definisce lo stesso ministero petrino. Perché l’unico potere che detiene il Papa, sul modello di Cristo, è il servizio che lo pone «vertice di una piramide rovesciata», come ha spiegato nel discorso tenuto il 17 ottobre scorso durante il Sinodo sulla famiglia. Unito a quello di custodire la fede, scrutando i segni dei tempi, annunciando da testimone e seminando la Parola, facendosi ponte perché le vie di Dio possano ovunque progredire, aprendo così gli orizzonti della «Chiesa che "cammina insieme" agli uomini, partecipe dei travagli della storia».
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